PERIODO
TERZO
1214 - 1405
CAPO I
DELLA BEATA BEATRICE D’ESTE
Fin qui abbiam dovuto percorrere
vicende e fatti per lo più sanguinosi e truculenti, a motivo
che i pacifici eventi restarono per la massima parte senza memoria per
la posterità. Ora a mezzo del nostro cammino riposiamo alquanto,
e non sia discaro al mio lettore ch’io gli narri la breve storia
di una vita illibata e cara della principessa estense Beatrice, la quale
colla sua bellezza e santi costumi rallegrò le contrade di questa
città a lei natale, irraggiò i vicini colli, e fu siccome,
direi così, un’oasi di pace nella fiera etade in cui visse,
e tra gli uomini spiranti guerra e tumulti ch’ebbe ad avvicinare1.
Nacque Beatrice in Este intorno all’anno 1192 avendo a genitori
Azzo VI marchese illustre 2 e Sofia figlia di Umberto conte di Savoja,
la quale al dire di Alberto da S. Spirito << portava pie viscere
di misericordia verso i poveri, sicché coll’abbondanza
sua sollevava << l’inopia loro>> 3.
Di soli dieci anni perdeva la Marchesa la tenera madre (3 Dicembre 1202)
4 da lei
redando le 5.000 lire sue dotali, le quali dal Marchese fratello Azzo
VII venivano soddi-sfatte con beni terreni posti in gran parte nel territorio
di Montagnana (1216) 5.
<< Passata l’età dell’infanzia, passò
Beatrice gli anni della sua adolescenza nelle <<pompe e favori
del secolo, in delizie della sua carne, e negli ornamenti e vanità
di <<diverso genere 6 com’è usanza di nobili femmine
e secolari, salva nondimeno l’integrità <<del suo
corpo e inviolato il sigillo della sua pudicizia e verginità,
secondoché conveniva <<a figliola di tanto Principe (Azzo
VI) il quale intendeva e desiderava lei congiungere con <<nozze
regali >>.
Ma appena ventenne, Beatrice rimaneva orfana anche del padre (1212)
accorato per la sconfitta toccata per opera del fiero Ecelino a Pontato
(pag.308).
Poco tempo appresso (1213 Ottobre) dovè quella fanciulla trovarsi
ad assistere alla caduta di Este sua patria; le grida degli assediati
e assedianti, il fragore dell’armi, l’ira e il furore del
fratello Aldobrandino e l’ottenere poi la pace dei vinti, avranno
contristato quell’anima eletta (pag. 315).
Non meno commovente scena si apprestò a quel tenero cuore, allorché
sul finire dell’anno stesso vide il fratello costretto a trovar
denari per imprendere la guerra al ricupero della Marca d’Ancona,
dare il proprio fratello Rinaldo ancor fanciullo in ostaggio agli usurai
Fiorentini << staccando questo quasi bambino, dice il Monaco Padovano,
dalle << braccia della dolente madre >> 7.
Ma anche Aldobrandino presto passava di vita (1215); << per lo
che quella tenera pian-<<ticella, estimate per quello che sono
le vanità terrestri, si decise alla vita monacale: <<Beatrice
fatta più libera di sé e più sciolta che non era
innanzi, e trapassata l’età anche <<degli adulti
entrando nella gioventù, avendo acquistato già il dono
della scienza più <<matura, del consiglio più sano,
ritornò al suo cuore; considerate seco tutte le cose che <<aveva
fatte, giusta la definizione del Savio, vide in tutto essere vanità
ed afflizione <<dell’animo, e niente essere durevole sotto
il sole. Però ajutata dalla grazia di Dio, e <<sparsa dell’unzione
dello Spirito Santo, determinò dall’intimo del suo cuore
di sprezzare <<con la mente la gloria della nobiltà e dignità
terrena, perocché tutto è vanità, e piuttosto <<anelare
con ogni sforzo delle sue viscere a quella celeste ch’è
vera gloria >>.
<< Beatrice lusingata dalle sue sante ispirazioni assente il Marchese
(Azzo VII) volle <<fare un pio ladroneccio di se medesima. Fece
ella venire a sé Giordano Forzatè Priore <<di S.
Benedetto di Padova, e Alberto Priore di S. Giovanni di Monte delle
Vigne 8, <<uomini religiosi e probi, maturi di sapere e di anni,
i quali accorsero con ilarità e presto <<rapirono quella
preda gratissima, e trassero fuori di Babilonia quel prezioso tesoro,
e la <<condussero alla rocca della santità, cioè
al monastero di religiose femmine, poste sul <<monte, il quale
si dice Salarola. Le sacre suore ricevano con allegrezza quella preziosa
<<margherita >>9.
Una mera leggenda troppo corrivamente abbracciata dai panegiristi e
scrittori moderni10, si è la fuga di Beatrice dal palazzo del
Marchese suo fratello, e l’irrompere di questi con mano armata
contro il monastero di Salarola, ed il suo mitigarsi all’incontro
che gli fece l’Abbadessa ed alcuni frati del luogo. Non frequenti
in vero sono gli esempi di que’ tempi che i grandi signori togliessero
dal monacarsi le donne del loro casato, assai sovente anzi incitandovele
con prepotenza.
Sta il picciol colle di Salarola a’ piè del maestoso Cero,
e prospetta l’amenissima strada
che da Este conduce per due miglia a Bavone. Vuolsi forse così
chiamato dal pagarsi ivi il salario ai soldati componenti i presidii
delle vicine fortezze di Este, Calaone e Cero. Fino dal 1179 la pietà
di Obizzo estense e dei suoi feudatarj Albertino ed Alberto cugini di
Bavone avea fatto donazione di quattro campi sulla cime di quel colle,
perché vi si fondasse una chiesa ed un cenobio, del quale Gerardo
Vescovo di Padova posava la prima pietra. Quel monastero dapprima, siccome
solevasi in quell’epoca, era doppio cioè di uomini e donne
composto. Nuovi benefattori del pio luogo si trova essere stati pochi
anni appresso Girardo nobile della casa di Calaone (18 maggio 1195),
e così di nuovo i conti da Baone (12 Settembre) . Lo stesso Azzo
VI (15 Settembre) venne innanzi al Vescovo di Padova per fare un’altra
cessione di fondi al suo nome e a quello dello zio Bonifacio ancora
pupillo in favore del monastero, nel qual giorno troviamo donna Osanna
accettare per sé le sacre suore dal pastore padovano le pietose
liberalità del Marchese. Finalmente è a ricordarsi di
questo tempo un pio legato fatto alle monache di Salarola dalla celebre
matrona padovana Speronella nel suo testamento .
Sembra che Beatrice non vestisse a Salarola l’abito di religiosa,
ma solo seguisse la regola di quelle benedettine siccome ancora novizia
.
Ma non bastantemente lontano dalle cure del secolo apparve quel colle
a Beatrice; ivi ella doveva udire gli armigeri armistizj delle prossime
fortezze, e le grida della soldatesca avranno spesso ferito le orecchie
della vergine contemplativa.
La quale desiderando di ricovrarsi lungi da ogni frastuono e romore,
trascorso appena un anno e mezzo, prescelse di recarsi al colle di Gemmola
due miglia all’incirca più lontano (1221).
Splende questo colle, quale gemma fra gli Euganei, a mezzogiorno del
sublime Venda, ricco di vigneti e di ulivi e circondato da prati e da
valli. Su quella vetta eranvi a quest’epoca gli avanzi di un antico
chiostro già abbandonato e che esisteva fino dal 1215. Azzo VII
fratello di Beatrice forse da lei invitato ottenne dal vescovo di Padova
la cessione di quelle rovine, e sopra quelle fe’ erigere il nuovo
cenobio e fe’ restaurare l’an-nessa Chiesa da S. Giovanni
Battista titolata, perché tutto fosse degno della mobilissima
donzella.
Solenne si fu il corteo che accompagnò la principessa estense
al colle di Gemmola, e le istorie de’ tempi ci narrano che i colligiani
Euganei se ne commossero accorrendo a vedere dalle cime quella processione.
Le due principesse Alisia vedova di Azzo VI, e Giovanna di Puglia moglie
di Azzo VII (mentre questi a quanto pare era lontano) e gran numero
di dame e cavalieri accom-pagnavano la monaca atestina. Chi anche in
oggi da Salarola si recasse alla non lontana Gemmola, potrebbe immaginare
quale spettacolo dovesse presentare quel passaggio memorabile.
<< Anelava la vergine al monte eccelso delle anime pie, dalla
cima del quale dovesse <<poi quella chiarissima gemma da lungo
e da largo diffondere splendenti raggi della <<clarità
sua e santità per illuminare chi siede fra tenebre e nelle ombre
della morte, le <<donne specialmente nobili; ove rifugio avessero
le donne timorate di Dio, che volessero <<là raccogliersi
per salute delle anime loro e preservarsi dai naufragi del presente
secolo <<ribaldo >>.
Riposatasi Beatrice sull’ameno colle, mirava di là intorno
altre case religiose poste sulle vette dei vicini poggi, e il suo spirito
ne sentiva conforto, e più dolce le riusciva la solitudine. Ben
presto ella devolveva le rendite de’ suoi beni a benefizio del
cenobio e le terre rimasero d’indi in poi dote di quello, professando
colle sue compagne la regola di S. Benedetto .
<< Sparsa la voce fra gli uomini della mutazione che avea sopra
quella signora fatta la <<destra dell’Altissimo, e la fama
di una tanta novità correndo presto per le città per gli
<<castelli e per varie contrade, fu gran commovimento in tutte
le parti, e molte donzelle <<d’alta nobiltà scampando
i naufragi del mondo, correvano all’odore degli unguenti della
<<nuova sposa di Cristo, e si trassero lietamente a Gemmola disprezzando
ivi le pompe, <<vanità, onorificenze del secolo e le sue
ricchezze; soprattutto i godimenti della carne <<schivando e le
altre delizie, tanto che moltiplicate le gemme su per lo monte di <<Gemmola
risplende di più bella luce, e maggiore per ogni parte di quelle.
Dieci figliole di <<Conti si trovarono colà, le altre poi
furono per gran parte figliole di nobili padri e ricchi e <<potenti.
Fra tutte poi sopraluceva sempre quella gemma splendidissima come stella
<<mattutina, perché sopravanzava sempre nelle varie specie
d’illustri pregi. Mirabile <<carità, umiltà
mirabile, la pazienza era molta, più che molta >> (Don
Alberto da S. Spirito).
Non è bene accertato se la nostra Marchesa che appena giunta
a Gemmola aveva rifiutato l’onore di Abbadessa del cenobio, lo
accettasse in appresso. È certo che ne’ primi anni del
suo soggiorno n’era investita la monaca appellata Desiderata,
ed Imiza all’epoca della sua morte.
I pochi anni del ritiro di Beatrice scorsero sereni e tranquilli, e
come i suoi biografi ci tramandarono, fra le opere di pietà verso
Dio e gli uomini.
Soli 34 anni aveva raggiunto la vergine quando quasi di dolce sonno
come fiore appas-sito, trapassava da questa vita, e fu il 10 maggio
dell’anno mille dugento e ventisei. Il suo corpo cosparso di aromi
e di fiori, come dice un suo panegirista del 500 (P. Olzignano), fu
riposto con molta solennità in una arca di pietra nel sacello
o cappella ad oriente della chiesa del convento, dove veniva venerato
dai propri colligiani e visitato dai più illustri del secolo.
Il solertissimo Brunacci venne a scoprire intorno alla metà del
trascorso secolo la iscri-zione sepolcrale di Beatrice, scolpitale tosto
dopo la sua morte, la quale si trovava in S. Sofia di Padova sopra la
cassa di marmo che racchiudeva il corpo della Beata che fu colà
trasportato nel secolo XVI, siccome tra poco vedremo. Questa iscrizione
era rimasta ignota, comeché preziosissima ella sia e per la storia
di Beatrice, e quale monumento di antichità cristiana . Eccola
in traduzione.
<< In questo sepolcro riposa la pia vergine chiamata Beatrice,
che di cuore amò la <<divina legge; lei generò il
Marchese Azzo, e la sua madre nacque dal Conte di Savoja. <<Questa
gemma che ora tra gli astri riluce, fondò un cenobio, di cui
va splendente il <<monte di Gemmola. Essa alta, essa potente,
essa buona nobile e generosa, chiara, <<faconda, bella sopra ognuno
e appariscente, fu però casta, sapiente e di pudica mente, <<facendosi
umile si fe’ amica del re dei Cieli; la quale quanto fu più
grande sulla terra, <<tanto più fu sommessa di mente a
Cristo. O colle di Gemmola ne godi, tu che vai lieto di <<tanta
lode. Le monache sorelle si studino di imitarla, affinché abbiano
a meritarsi dopo <<di lei la stessa corona; ella vi ha posto la
base, Iddio la compiva. Così sia. Nell’anno del <<
Signore 1226, sesto delle idi di Maggio (10) >>.
Le virtù ed il grido di santità di Beatrice invogliarono
altre due donne della stessa casa estense a seguire l’esempio
della zia. Belle e preziose notizie storiche qui ci si apprestano, e
per questa patria estense assai gloriose.
Andrea II Re d’Ungheria rimasto vedovo dava la mano di sposo in
Albareale (1234. 14 maggio) a Beatrice marchesa estense che noi diremo
Seconda, figlia di Aldobrandino e quindi nipote della Beata. Rimasta
la nuova regina anch’essa vedova di Andrea (1235), Bela suo figliastro
e successore a quel trono, si mise a perseguitarla barbaramente a tal
segno ch’ella trovandosi incinta dov’è fuggire sotto
mentite vesti e recarsi alla casa paterna in Este, dove dié alla
luce un bambolo col nome di Stefano, il quale divenuto in appresso sposo
di Tommasina Morosini procreava chi ascese poi un trono e fu Andrea
III re d’Ungheria (1290).
Ma la Marchesa Beatrice dato ch’ebbe alla luce quest’illustre
rampollo, disgustata del mondo dal quale non aveva côlto che amarezze,
volle godere di soave riposo nel cenobio fondato da sua zia a Gemmola,
ove placidamente ella finiva i suoi giorni (1245). Il suo più
bell’elogio ce lo danno i Bolandisti laddove scrissero che <<
era dessa soprattutto imita-<<trice e studiosissima della zia
>>.
Ma una terza Beatrice devota alla santità della vita ben presto
sorgeva, nipote anch’essa della nostra di Gemmola comechè
figlia di Azzo VII, la quale stimolata al certo dal desiderio d’imitare
le altre due Beatici, faceva edificare presso Ferrara un monastero di
vergini appellato poi del B. Antonio << Così queste due
vergini, dice il monaco padovano, <<quasi due olive producendo
opere fruttuose di pietà, e quasi due candelabri negli <<esempi
delle virtù lucendo da per tutto, non meno resero co’ suoi
meriti lodevole e <<gloriosa la sua casa di quello che i suoi
generosi Marchesi fecero per dilatare il potere e <<la fama esponendosi
ai vari pericoli di guerra >>.
Bella amicizia contrassero i due conventi di Gemmola e di Ferrara. Si
ha un breve di Papa Urbano V. del 16 Giugno 1356 col quale fu dato permesso
alle suore del convento di S. Antonio di Ferrara di recarsi una volta
all’anno a visitare quello di Gemmola, e alle suore di questo
a ricambiarne la pietosa visitazione .
La casa dei Marchesi non cessò mai, per passar di anni e traslocatasi
anche a Ferrara, di visitare il bel colle di Gemmola a salutarvi la
salma della loro Beata congiunta, e così di farvi offerte e donazioni;
ché anzi rimase nella casa estense il diritto di Avvocazìa
sul convento di Gemmola colla nomina dell’Abbadessa.
Ma il bel colle, la gemma fra gli Euganei, dovea essere privato di tanta
gioja. Per alcuni abusi che sembra colà essersi introdotti, il
vescovo di Padova Cornaro nel 1578 unendo il convento di Gemmola a quello
di S. Sofia di Padova, ordinò che con gran pompa fosse fatta
la traslazione in quella chiesa del corpo della Beata, e vi fosse ivi
esposto alla pubblica venerazione. E tale solennità fu fatta
nei giorni 12 e 13 Novembre del 1578 , e fu il corpo della Beata ricollocato
nella sua antica arca, dove tuttora si trova.
Né la Casa estense cessò di fare visitazioni e doni all’antica
loro congiunta, e di una solenne visita si ha in memoria che fece la
duchessa di Modena Margherita Farnese assieme al suo sposo duca estense
Francesco II e così altre ne fece Alfonso IV (1661-1662).
Ora la tomba della Beatrice estense, per dar luogo alla riedificazione
della chiesa di S. Sofia di Padova, fu trasportata nella vicina chiesa
di S. Gaetano. sarebbe certamente decoroso agli estensi cittadini l’impiegare
i dovuti mezzi che valgano a far ritornare in patria la mortal salma
di Beatrice che fra noi vide la luce, visse e morì sopra suolo
estense. Se ciò non sarà dato di ottenere, è buono
almeno lo sperare che il sepolcro della nostra Beata si riporrà
col dovuto onore entro il tempio rifabbricato.
Non mi sia soggetto di biasimo se quasi allettato dall’argomento,
mi sono alquanto allungato sulla storia di una pacifica vita, e le cui
vicende si restrinsero a breve cerchio di terra. Ma come poteva io lasciare
preterite tante belle memorie che di quella principessa e della sua
epoca ci rimasero attraverso i secoli? Beatrice fu nostra, nostro il
suolo ch’ella riempiva del suo nome, nostro quanto la circondò
fino a che visse, ed a gloria d’Este torna quella fama di pietà
e di beatificazione, che di lei si sparse per tutta quanta l’Italia.
CAPO II
GUERRE TRA ECELINO E GLI ESTENSI SECONDA CADUTA DI ESTE
Riprendiamo il filo della nostra
storia lasciata all’anno 1213, nel quale dopo la vittoria dei
Padovani, i nostri Marchesi nell’accordo di pace fatto con quel
Comune perdettero in parte le antiche loro ragioni feudali sopra Este
e suo territorio; ma che ben presto ricuperarono quantunque sempre lor
contrastate dalla Comunità patavina e poi da Ecelino conquistatore
di quella.
Dei molteplici eventi e non ingloriosi per questa terra, che dovremo
narrare in questa epoca di azione tutta e vigore nazionale ripiena,
ci sarà forza attenerci pressoché alla sola guida dei
cronisti padovani; ché l’invido tempo ci tolse ogni nostra
propria cronaca contem-poranea ed ogni altra memoria che monumentale
non sia. da questo punto fino alla fine mi trovo per di più abbandonato
dall’eruditissimo mio concittadino Isidoro Alessi, il quale condusse
le sue Ricerche storiche sino alla prima caduta di Este (1213) ove ebbe
termine il secondo Periodo nella già divisata partizione di questo
lavoro (pag.27).
Aveva stabilito l’Alessi, come sappiamo da lui stesso, di fornire
la sua opera con una Seconda Parte, la quale non avendo egli pubblicato,
restò dubbio a taluno se l’avesse in fatto compiuta, e
quindi data alle fiamme, indispettito dall’essergli ricusato un
sussidio pecuniario dai reggitori del Comune estense. Io però
leggendo lo schizzo che ne dà quello storico in sul finire, terrei
più probabile ch’egli avesse bensì raccolti alcuni
sparsi materiali per una Seconda parte, ma che in vero non li abbia
poi mai recati ad un qualche ordinamento storico, altrimenti non saprei
perché non l’avesse lasciata ai posteri anche manoscritta.
La scienza, il mite animo, e l’amor di patria, di che era a dovizia
fornito quel mio concittadino, non mi lasciano supporre aver lui potuto
commettere un simile parricidio, per la grettezza di pochi diseredando
la sua Este di un sì pregiato lavoro.
Da quanto nullameno per me si è raccolto per condurre a storica
narrazione questo terzo Periodo, (1213 - 1405) ho potuto quasi godermi
nell’animo di poter presentare ai miei lettori una connessione
di fatti e di eventi bastantemente rilevanti per un’epoca tanto
oscura anche per le maggiori città di questa bella Italia. Ed
abbiamo pure la sorte che per lunghi anni ancora ci soccorre la immensa
erudizione co’ documenti e memorie alla nostra storia attinenti
raccolti dal Muratori nelle immortali sue opere; ma più davvicino
in quella che peculiarmente ai fasti della Casa Estense ei dedicava.
Non pretendasi però una grandezza di storia, né mi si
accagioni, come a dire, di aridità; ché una storia municipale
non è quella di un regno, e la storia atestina non è,
né può essere quale sarebbe d’una fra le primarie
città italiane. Io scrivo la storia di una comunità italica,
la quale vanta antichità d’origine bei fasti nell’evo
medio, e poche memorie dell’età moderna, in cui cessò,
con altre città consorelle di far parte del movimento italico
de’ mezzi tempi. Este ha una storia propria, lo disse già
un chiarissimo padovano scrittore , e questo assunto io mi cerco di
possibilmente condurre al suo fine, il meglio che per me si possa.
Dando fine a questo proemio, conchiuderò che noi Estensi, avuto
riguardo alla caligine dei tempi, entro la quale ci conduce il terzo
Periodo, dobbiamo andare fors’anco contenti delle non ingloriose
memorie che di questa città ci rimasero. darà risalto
al principiar di questo periodo la troppo celebre rivalità di
famiglia tra gli Ecelini e gli Estensi, che giunse a tal segno da non
poter aver termine che collo spegnersi dell’uno o l’altro
casto. Cadde chi della tirannia volea farsi puntello a regnare; stette
all’invece ed accrebbe sua potenza quella prosapia che durante
quella ferocia di tempi e costumi, si era sempre mostrata mite e magnanima,
vera fortuna per la patria atestina. E ben a ragione l’illustre
filosofo Giu-seppe Ferrari in una celebrata sua opera così scrisse:
<< Vitelli, Orsini, Oliverotto da <<Fermo, Borgia, tutti
quanti uomini di sangue passano come una sanguinosa fantasma-<<goria,
nel mentre che i Gonzaga, i Baglioni, gli Estensi toccano l’ultima
meta del <<principato municipale consolidato sull’obblio
dei privilegi e sull’affezione dei popoli >>.
Decesso il marchese Aldobrandino (1215) al quale non era sorrisa la
sorte dell’armi (pag. 317) successegli il fratello Azzo tuttor
giovinetto di dieci anni, figlio del prode Azzo VI e solo rampollo maschio
della prosapia atestina.
Non appena egli si poneva a capo del suo marchesato, gli veniva tosto
(1217) dal supremo cattolico Gerarca confermata la investitura della
Marca d’Ancona, cui di fatto non conseguiva che più tardi
(1226) attesa la sua immaturità . Ben presto lo troviamo a Padova
(30 Giugno 1218) nuovo onore ricevere dal vescovo di colà, il
quale davagli ampla conferma di que’ feudi tutti, che dal vescovato
stesso aveva in addietro ottenuti la casa atestina .
L’invasione dell’agro estense del 1213 abbiam già
veduto quanto fosse dispiaciuta al Pontefice Innocenzo IV, il quale
faceva intimare ai Padovani, benché indarno, di desistere dall’ingiusto
attacco (pag. 316). Azzo VII che procurava di tenersi cattivata l’amicizia
anche dell’imperatore Federico, il quale tanto doveva al valore
di Azzo VI (pag. 307), si studiava di cogliere l’occasione per
ricattarsi dei soprusi commessi contro il debol suo fratello Aldobrandino.
E quella venne propizia, allorché Federico si recava in Italia
(1220) per ricevere a Roma la corona dei Cesari, e mentre attendevasi
a S. Leone presso di Mantova, ove erano convenuti anche il podestà
ed ambasciatori da Padova, rilasciò il seguente Rescritto, col
quale intese di rendere giustizia al Marchese e agli Estensi:
<< Federico per la Dio grazia re dei Romani sempre augusto, e
re di Sicilia. Con questo <<presente Nostro Rescritto facciamo
noto a tutti i presenti e futuri, che Noi rammentando <<i servigi
da Azzo (VI) marchese estense prestati per condurci in Germania, e fatta
<<considerazione alla lealtà di Azzo suo figlio, per solo
dono e grazia della Nostra Maestà <<comandiamo e decretiamo
mediante questa Carta, alla presenza del Podestà e <<ambasciatori
di Padova, qualmente essi non abbiano a pretendere potersi Azzo <<marchese
d’Este impedire, inquietare, molestare, o attraversare nei suoi
diritti di <<giurisdizione, di fôdero, metter bandi, tener
placiti, infliggere pene corporali, dar <<sentenze nelle liti
civili, criminali e fiscali, per multe, fazioni, côlte, dazii,
terre comuni <<e gabelle, in checché consistano tutte quante
le predette cose ed ancora ogni altra che <<appartenga a distinzione,
onore, e signoria nel distretto di Este, Calaone, Montagnana, <<Trecontà,
S. Salvaro, Merlara, Urbana, Casale, Altadura, Piacenza, Ponso, Vighizzolo,
<<Gazzo Calcatonica, Saletto, Migliadino, Cancello, Solesino,
Vescovana, Villa di Villa, S. <<Elena, Carmignano, Ancarano, Coreze,
Santa Catterina, e in generale e per tutto nelle <<altre terre
tutte, tanto novali che antiche, che il prefato Azzo di buona memoria,
padre <<dello stesso figlio Azzo, e suoi antecessori in qualunque
tempo tennero e possedettero. <<Che se il Comune di Padova o qualche
privato detiene alcuna di queste cose che gli <<antecessori di
detto Marchese teneano in loro ragione, ne facciamo immediatamente la
<<restituzione. Inoltre formalmente comandiamo ed ordiniamo che
il comune di Padova <<faccia rimettere il Palazzo di Este nello
stato suo pristino nel miglior modo possibile, e <<sia desso riedificato,
e ristaurato a commodo del predetto Azzo. Concediamo inoltre <<allo
stesso Marchese quegli aumenti di terreno, beni comunali, valli e paludi
che <<esistono nelle sunnominate terre; comandiamo e coll’autorità
di questo Rescritto <<imponiamo che non vi sia alcuno il quale
presuma erigersi contro questo ordine Nostro; <<se poi taluno
l’osasse, incorrerà nella Nostra collera e nella pena di
5000 Marche <<d’argento, metà alla nostra Camera,
e metà a quelli che avranno ricevuta l’ingiuria. Per <<memoria
di questo Nostro comando, femmo stendere questo Decreto confermandolo
<<col sigillo di nostra Altezza. Furono testimonj Bertoldo patriarca
di Aquileja ed i vescovi <<Ulrico di Passavia , Sifredo di Augusta,
Giacomo di Torino, Enrico di Mantova, <<Lodovico duca di Baviera
conte palatino del Reno, Tebaldo marchese di Hohenburg, <<Evirardo
conte di Helfistem, Rinaldo duca di Spoleti, Anselmo marasciallo di
Iustingen, <<Corrado camerario di Verda e molti altri - Dato presso
S. Leone sul campo presso <<Mantova nell’anno dell’Incarnazione
del Signore 1220, 17 Settembre, regnando il Signor <<nostro Federico
per la Dio grazia illustrissimo re dei Romani sempre Augusto, e re di
<<Sicilia nell’anno ottavo del suo felice regno romano in
Germania, e vigesimoterzo in <<Sicilia. Amen >>.
Onorevolisssimo alla casa estense torna questo veramente storico documento,
e di molto illustra questa storia, laddove ci è dimostrato siccome
la vittoria riportata da’ pado-vani sugli Estensi nel 1213 e la
forzata pace che ne conseguì (pag. 318) sia già stata
per nulla dichiarata solennemente dal governo papale da una parte, e
dall’impero dall’altra. Que’ tempi però eran
tali, che in onta a tali ordini, vedremo al più presto intaccati
di nuovo i diritti dei Marchesi, ed Este costretta a sostenere il peso
di guerre micidiali. Difatti i soprusi dovettero seguire tosto ai comandi
imperiali, nel mentre l’anno vegnente (1221 - 21 marzo) troviamo
Azzo ottenere da Federico una formale rinnovazione d’investitura
degli antichi beni di famiglia ed annessivi diritti, allorché
quell’imperatore si trovava a Brindisi. Altro bel documento si
è questo, che somigliante in tutto a quello riportato già
da noi per intero all’anno 1077 (pag. 243), ne daremo, come a
dire, lo schizzo. Federico, fatta dap-prima grata ricordanza dei benefizi
ricevuti da Azzo VI, e fatta solenne dichiarazione di accettare il Marchese
Azzo VII sotto la alta sua protezione e dell’Impero (espressioni
forse di troppo abusate a quell’epoca), fa a lui e successori
espressa ed amplia conferma delle sue antiche girisdizioni sopra Este,
Calaone, Cero, Bavone, Solesino, Villa di Villa colla sua corte, Montagnana,
Megliadino, Urbana, Merlara, Piacenza, Cologna colla sua corte, Saletto,
Casale, Vighizzolo, il contado di Rovigo e finalmente Adria e l’adriese,
con piena giurisdizione, con ogni onore e dominio, nella stessa guisa
che Azzo padre del detto Marchese ed Obizzo marchese avo del pronominato
Azzo, avevano già ottenuto dagli imperatori prima di lui .
Tali furono al certo veri riconoscimenti delle giurisdizioni marchionali
sopra Este e con-terminante territorio, ed a prima giunta chiaro ci
apparisce siccome del solo errore si fecero scudo que’ cronisti
padovani, fra’ quali Rolandino, che allo scopo di giustificare
il loro Comune, per titoli di privilegio e non altro qualificarono i
preannunziati diplomi imperiali.
Andava così Azzo riordinando il proprio stato, e capo qual era
ereditario del partito guelfo in Italia, cominciò ad immischiarsi
in tutti i movimenti di quello, mentre le città italiche e le
potenti famiglie sue alleate, a lui quasi a nucleo, si riportavano.
Contraeva tra questo illustri nozze con Giovanna sorella del re di Puglia
Roberto . Tra difficili con-giunture per altro trovatasi il Marchese
a questa epoca, laddove volea barcheggiare tra la parte guelfa e la
ghibellina e non recar d’altra parte dispiacere all’imperatore,
che ai ghibellini italiani sempre più si accostava.
Ma uno scacco gli era preparato in Ferrara, dove avendo prevalso la
parte ghibellina (1222), il Marchese co’ suoi aderenti venne escluso
dalla città e dalla signoria di quella, benché a suo padre
e successori fosse stata per popolare libera elezione accordata (pag.
300).
Il Marchese volle tosto tentar la rivalsa recandosi co’ suoi militi
raccolti dal territorio atestino e rodigino (de’ quali potea allora
solo servirsi) sotto le mura di Ferrara. Salinguerra volpe vecchia tratta
con lui di pace; fidandosene il Marchese entra in città con cento
nobili cavalieri; ma il traditor ghibellino lo fa inseguire per le contrade;
a disperata zuffa si mettono que’ del Marchese ed egli stesso,
mentre vede al suo fianco cadere colpito a morte l’amico suo Tisolino
da Camposampiero. Azzo scampato incolume ritornò due anni dopo
all’assalto (1224) congiuntosi all’amico suo Rizzardo da
Sambonifacio. Ma questi per incredibile bonarietà si lasciò
trarre nella sua stessa rete, e fidandosi alle proposte trattative amichevoli,
entrato in città fu tosto fatto prigioniero da Salinguerra. Il
Marchese deluso si recò improvviso sotto al castello della Fratta,
e tanto vi durò pertinace all’assedio che lo ridusse per
fame a capitolare.
Risuscitate così le due fazioni, si facevano una interminabile
guerra. Ecelino, Salin-guerra ed i Montecchi da una parte, gli Estensi,
i Sambonifacio, i Camposampiero e i Caminesi dall’altra, faceano
andare a sangue la Marca trivigiana non senza recare gravi sconcerti
alle risorte libertà italiane. Liberatosi il conte Rizzardo per
mediazione dei Rettori della lega lombarda, fece ritorno a Verona, ma
per pochi mesi ci restava; che i Montecchi ne lo discacciavano di bel
nuovo (1225). Ricorse egli tosto ad Azzo, ed insieme unite le loro forze,
i due principi guelfi si avviarono di là ad alcun tempo (1226)
a Verona. Ma Ecelino pella Valcamonica giunse improvvisamente a dare
ajuto ai Veronesi, e venute le due osti a campale battaglia, i Marchesani
ebbero la peggio.
Azzo escluso così da Ferrara, in questo intervallo che fu di
ben 18 anni (1223-1240) dové certamente tener sua dimora in Este
nel palazzo marchionale, che pel diploma imperiale del 1220 (pag. 342)
dovea già essere stato ristaurato a cura e spese del Comune di
Padova.
Ma anche qui era raggiunto dall’odio inesorabile del suo nemico,
Ecelino. La potenza di quest’uomo straordinario andava sempre
più crescendo per tutta la Marca, e una terribile guerra sorgeva
tra le due case rivali che non poté avere fine che collo spegnersi
dell’uno o dell’altro casato. Siccome avremo qui tosto molto
a parlare di quest’uomo formidabile, che fu poi lo immanissimo
tiranno di Padova, e che fece anche tanti danni a questa nostra Este,
di cui scriviamo, così non sarà, io credo, fuor di luogo
darne qui il ritratto pôrtomi da chiarissima penna patavina:
<< Fu Ecelino di corpo mezzano e robusto, di volto ingrato e quasi
bestiale, di atti, voce << e sguardo iroso e feroce, Ebbe mente
acuta, volontà indomita, voglie sfrenate, agonia << di
conquiste, febbre e libidine di dominare e reprimere. Questa lo gittò
nella scellerata << via, questa gli seccò il cuore sì
che fu muto ad ogni genere di amore. Formidabile ca-<< pitano,
furioso battagliero, politico talvolta astuto, sempre pessimo principe,
dapprima << coprì sua ingenita perfidia, ma strozzata la
libertà puntellossi sull’italicida Impero, e <<sfrenò
la tirannide. Saggiato il sangue, vi prese voluttà, incrudelì
tanto da snaturarsi ad << ogni senso umano, godendosi in carneficine
e stragi, imbestiando sé ed i popoli <<soggetti; onde (tranne
pochi esempi) attutì in essi nonché le pubbliche e domestiche
<<virtù, giustizia religione, perseguitando il clero e
difendendo gli eretici. Neglette le arti, <<desolate le terre,
le città spaurite, emunte, spopolate, ogni social vincolo sospeso
e <<corrotto >> .
Ecco l’uomo col quale ebbe tanto a fare il nostro Azzo, e quello
che ben due volte vedremo assediare e prendere in sua balìa questa
terra che noi abitiamo.
Azzo poco appresso (1228) condusse i suoi militi estensi, uniti questa
volta a’ pado-vani, alle zuffe armate che allor ebber principio
contro i trivigiani, che voleano signoreggiare Feltre e Belluno. Dopo
un anno di guerra (1229) venne fatta la pace colla interposizione dei
Rettori della lega lombarda e di Gualla vescovo di Brescia e legato
per la S. Sede, nella quale i Padovani si contentarono di un compenso
pecuniario. Poco stante, le masnade di Bassano volendo ricattarsi in
libertà si ribellarono ad Alberico da Romano fratello di Ecelino,
e, sconfitte dal loro signore, hassi memoria esser molti bas-sanesi
venuti a rifuggirsi in Este presso al Marchese.
Ma le armi non posavano. I Padovani da una parte entravano nell’agro
veronese, e di forza prendeano Porto, Legnago, Buonavigo, Rivalta e
Tomba; dall’altra parte Azzo co’ Mantovani, Modenesi e fuorusciti
di Verona prendeva e saccheggiava Trevenzuolo, la Motta d’Isola
della Scala ed altri villaggi. Ecelino però il quale teneva suo
prigioniero ancora il Sambonifacio, affortificatosi entro le mura di
Verona stava a piè fermo aspettan-do i suoi nemici, che per allora
si ritiravano. Si pensò di venire ai trattati e nuova lega si
strinse tra le città di Brescia, Mantova, Ferrara, Vicenza, Padova,
Verona e Treviso, alla quale lo storico Maurisio a’ servizi di
Ecelino, dopo liberato il Sambonifacio, faceva accedere il da Romano.
Ma questi, intimato dai collegati di recarsi a Bologna per giurare la
loro alleanza, non ne volle più sapere, e da quel punto la ruppe
per sempre coi Guelfi gittandosi tutto alla parte di Federico Imperatore,
il quale avea deliberato di soggiogar quella lega; ma questa alla sua
volta stette tutta contro del Da Romano.
L’anno seguente (1232) il Marchese unito a que’ di Camino
diede una grave rotta ai Trivigiani, ed i prigionieri fece tradurre
a Rovigo.
Frattanto una pace generale quantunque di assai corta durata rasserenava
ancora queste contrade, della quale fu nobil parte e cagione la casa
estense. Frate Giovanni da Schio dopo aver percorso molte città
italiane predicando la concordia e la fratellanza, pre-ceduto dal carroccio
giungeva a Monselice e di là s’era recato a Padova. A pegno
della futura pace tra le due potenti fazioni che desolavano l’Italia
tutta, venne a capo di conchiudere solenni sponsali fra Rinaldo I unico
figlio del Marchese Azzo VII e Adelaide figlia di Alberico da Romano.
Compiuto questo grand’atto, convocava Fra Giovanni la celebre
assemblea di popoli italici a Pasquara presso Verona (1233), alla quale
interveniva il nostro Azzo. Stabiliti ivi i patti della universal pace
si pubblicò agli Italiani il bene augurato connubio, il quale
si effettuava con grande solennità a Vicenza due anni appresso
(1235). A quest’anno deve pure ricordarsi che Azzo venne eletto
a Podestà di Vicenza, e che Ecelino, come altra volta il marchese
estense Aldobrandino (pag. 318), prese la cittadinanza di Padova pattuitagli
nella pace di Pasquara.
Non tardò però la guerra a riaccendersi nella Marca ad
istigazione principalmente di quel fiero nemico di ogni pace, Ecelino;
il quale, venuto l’imperatore in Italia (1236) poté farsi
nella sua grazia, tal che avutone anche soccorso d’uomini, si
rese padrone di Verona, e quindi della stessa Vicenza, ove n’era
stato confermato a Podestà il Marchese. Questi per sua parte
avea respinti i messi imperiali, e pubblicato un bando di morte contro
chi solo nomasse l’imperatore . Tanto era l’ira di parte!
Ma soprapreso Azzo ebbe appena agio a fuggire, intantoché il
suo rivale occupava anche Trevigi che fu data in governo ad Alberico.
Il Marchese si mise allora a tutta possa a fortificare il suo castello
di Este. I Padovani atterriti da sì largo incendio, affidarono
le redini del governo a sedici gentiluomini, ed, invitato il Marchese,
in pieno parlamento a lui fecer solenne consegna del gonfalone della
città siccome alla più nobile e potente persona della
Marca, affinché se ne facesse scudo e difensore (Rolandino).
Ma taluno di que’ preposti sapeva di ghibellinismo e favoriva
ad Ecelino.
Frattanto l’armata imperiale (1237) condotta da Ecelino, espugnati
molti castelli, passò a Monselice, che teneva guarnigione padovana,
e quel castello fu tosto consegnato da Paliniero ribelle al Comune di
Padova. Il Marchese dové allora ritirarsi a Este. Qui fu raggiunto
il mattino appresso dai messi di Ecelino che lo ricercavano se volea
esser amico o nemico di Cesare, due soli giorni accordando pella risposta.
Il Marchese col nemico a sole 5 miglia di stanza, con Padova già
divisa e vacillante rispose attenersi lui all’imperatore, purché
nessuna angheria gli venisse fatta, né venissero le sue genti
mole-state. Allora Ecelino (25 Febbrajo) per accordo entrava in Padova,
alla quale ben duri giorni stavano apparecchiati. Fuggirono molti cittadini
avversi a Ecelino, e fra questi Arnaldo Abate di S. Giustina, il quale
sembra essersi ritirato presso il Marchese in Este, donde più
tardi (1239) fu richiamato in patria dallo stesso imperatore. Il Marchese
lo tro-viamo nello stesso anno a Trento a complimentare Federico e discolparsi,
quindi sotto Montechiaro coll’esercito imperiale, e finalmente
intervenne alla vittoria che quell’im-peratore riportava sopra
i Milanesi.
Il Marchese (1238) ordinate ch’ebbe in Este le fazioni guerresche,
sollecitato anche dai più nobili cittadini padovani, già
stanchi del nuovo padrone, si portò d’improvviso sotto
Padova (13 Luglio) co’ militi estensi, accompagnato anche da Jacopo
da Carrara e da Uguccione Pileo. Occupò prima il Prato della
Valle, dal quale dovea penetrare entro la città per la porta
di Torricelle che dovea essergli aperta dai congiurati padovani. Ma
Ecelino avvertitone a tempo uscì improvviso dalla città
per un’altra porta e mise in fuga le brigate marchesane, mentre
Azzo fremente dello scoraggiamento de’ suoi dié di sprone
all’agile suo destriero che lo portò salvo ad Este; Ecelino
tosto (22 di Luglio) si presentava minaccioso ad abbatterne il castello.
Il Marchese prevedendo di non poter resistere co’ suoi Estensi
ormai scoraggiati a forze ben superiori, si congedò dal suo popolo
atestino che piangeva, dice il Rolandino, e si ricovrava a Rovigo colla
famiglia. Alcuni giorni appresso fece capitolazione la nostra rocca,
ove Ecelino pose presidio di Padovani e Saraceni composto. Scrive Rolandino
che gli Estensi non ebbero a soffrire alcun danno, avendo Ecelino pubblicato
un severissimo bando a loro tutela; e che ne furono puniti i contravventori
col taglio delle mani e de’ piedi. Si conosce qui apertamente
che Ecelino tentava di affezionarsi, se fosse possibile, gli animi degli
Estensi, mentre ad ogni costo aspirava a spodestare Azzo dei dominii
esten- si .
Si provava intanto Ecelino di espugnare anche Montagnana, ma quegli
abitanti attaccati alle parti del Marchese si difesero con grande valore
ché anzi abbruciarono al nemico di bel mezzo giorno una torre
di legno destinata ad offendere il castello. Lo stesso Ecelino corse
pericolo della vita in quell’assalto. Levò l’assedio
quel fiero, giurando di esterminar quella terra.
Quest’è la seconda caduta di Este, del cui assedio altre
particolarità non ci conservò la storia, che pur avremmo
il desiderio di possedere. I fatti di guerra allora si succedevano nella
Marca ad ogni tratto e gli storici dell’epoca si accontentarono
di accennarli. Qui faremo posa, mentre però le fazioni di guerra
c’incalzano anche nel prossimo Capo.
CAPO III
RISCATTO DI ESTE PER OPERA DEL
MARCHESE AZZO VII.
ESTE DIVENTA IMPERIALE PER BREVE TEMPO.
CONTINUA LA LOTTA ARMATA TRA LE DUE RIVALI.
TERZA CADUTA DI ESTE. FINE DI ECELINO REDINTEGRO DELLA CASA ESTENSE
NEGLI ANTICHI SUOI BENI
Gravi e tremendi fatti qui si
presentano allo storico di una epoca troppo famosa per la Marca Trivigiana,
in mezzo al cozzare delle fazioni divenute vieppiù furibonde.
Este dové portare anch’essa la sua parte di calamità,
posta com’era a segno delle vendette di un Ecelino, il quale colla
sua distruzione sperava annientare per sempre la potenza marche-sana
e guelfa.
Poco durarono gli Estensi sotto l’ira ghibellina, e fu loro sorte,
mentre gli anni avvenire non avrebber scampato alle inaudite carnificine,
che il tiranno fe’ provare ai Padovani, laddove i nostri da due
secoli obbedivano a mite Signore. Ed ecco in qual guisa avvenne il riscatto
del popolo estense.
Essendosi Ecelino ritiratosi a Verona, il Marchese (Agosto 1238) profitta
della sua assenza, e si reca tosto con buona forza sotto al castello
di Este; ben presto ricevuto ed acclamato da tutti a liberatore, ne
occupa la piazza, ma resiste ancora la rocca. Azzo unitosi con Fulcone
di Montagnone trae co’ suoi a Monterosso, e se ne impadronisce;
ma Alberico da Romano accorre da Padova con tutte le milizie, rioccupa
dopo furioso assalto quel colle, le cui fortificazioni non erano ancora
terminate, e mette in fuga la gente ate-stina, facendo prigione lo stesso
Fulcone. Siffatta era la vicenda dell’armi! Ritornato a Padova
Ecelino, scrisse tosto all’Imperatore che si trovava a Cremona
(Ottobre) accusando il Marchese di mene e raggiri e di prestar mano
ai nemici dell’impero, incitandolo a portare le sue armi contro
l’Estense, alla qual lettera il Da Romano avea favorevole risposta
(21 Dicembre) . Poco appresso Federico si recava egli stesso a Monselice
fatto camera sua imperiale, e ordinava che fosse quel castello circondato
di nuove mura. Salito egli sulla rocca monselicense, di là prospettando
il castello di Este e le ridenti sue colline e le ubertose circostanti
campagne, intravide la marchionale potenza, e ne restò come preso
di meraviglia non lontana da cupidigia. Mandò tosto ad invitare
il Marchese perché a lui si recasse (Fine di Gennajo 1239). Quell’abboccamento
tendeva a trarre con melate parole il Marchese alla parte ghibellina.
Dovè l’Estense piegarsi per allora al suo potente nemico,
ricevere di buon grado, in apparenza almeno, un presidio imperiale in
Este. I tempi però portavano di non fidarsi del tutto alla parola;
ma si volle dal Marchese un ostaggio della data fede, e prezioso lo
si ebbe in Rinaldo unico figlio del Marchese, nello stesso tempo che
la sua sposa Adelaide da Romano serviva da stâtico pel suo padre
Alberico.
Ma tutto questo non era che raggiro di Ecelino, ed una rete tesa per
trarvi dentro i suoi nemici. Per venirne a capo, aveva indotto l’Imperatore
ad invitare il Marchese a Padova, e presa nota di quei cittadini che
gli si fecero incontro fuor delle mura, li relegava tosto a Vicenza.
Frattanto anche Alberico si levava la maschera; e coll’impadronirsi
per sorpresa di Trevigi, dichiaratasi nemico del fratello suo Ecelino.
L’Imperatore allora col Da Romano, traendosi seco il Marchese
co’ suoi militi atestini, correva ad assediare quella città.
S’incontrarono diretti com’erano a quella volta i due rivali,
accompagnato il primo da soli 20, ed Azzo da 100 cavalieri presso a
Cittadella. Si credé che quell’incontro potesse trarre
ad una zuffa, ma il Marchese benché più forte, generosamente
mandò innanzi Giacomo da S. Andrea figlio della celebre Speronella,
ed Ailo de’ Compagni, i quali pregarono corte-semente Ecelino
a ritirarsi a diritta o a manca, come piacessegli meglio. Tanto accanite
erano allora le fazioni, che gli uomini temeano non il solo vedersi,
benché stretti in lega, dovesse provocare una zuffa! Sciolto
l’assedio senza riuscita alcuna, Federico ritiratasi a Verona
e con esso il Marchese; ma questi avuto segno di qualche trama anche
sul suo capo, si chiudeva improvvisamente nel castello del Conte Sambonifacio
suo amico, né per quanto Pietro delle Vigne mandatogli dallo
stesso Imperatore cercasse di persuadernerlo, poté indursi a
torsi di là. Il vero motivo di sì pressanti uffizi cel
narra il Verci, quantunque poco propenso ai Marchesi, e ciò torna
più onorevole ad Azzo << Premeva a Cesare <<assaissimo
(egli dice) di averli (l’Estense e il Sambonifacio) nel suo esercito,
poiché <<marciando contro le città collegate, quelli
erano personaggi che davano peso alla parte <<che favorivano.
Ma essi non volevano militare in un esercito che era diretto a <<soggiogare
le libertà di quelle repubbliche, delle quali erano essi partigiani
>>.
Sbuffante Federico fa pubblicare da Verona solenne condanna (13 Giugno
1239) contro il Marchese e suoi aderenti ivi ad uno ad uno nominati
, facendola gridare alla presenza di tutta la corte da Pietro delle
Vigne montato sopra un puledro innanzi alla chiesa di S. Zenone. Tutti
i sentenziati e per primo il Marchese sono dichiarati decaduti da ogni
loro dominio e giurisdizione che ottenuto avessero dall’Impero,
e tutto dover ritornare a questo, comminando gravissime pene contro
tutti quelli che in qualsiasi guisa recassero soccorso ai contumaci
o ad essi si alleassero, e tutto questo fe’ giurare anche quale
fondamentale Statuto al Comune di Verona.
Ma non contento ancora Federico, volle trarre vendetta di Azzo sopra
l’innocente suo figlio Rinaldo, mandandolo prigioniero con alcuni
distinti Padovani a Cremona, poi a Parma, e finalmente in Puglia assieme
alla moglie Adelaide, sposi entrambi sventurati.
Este così e le circostanti castella, in forza di quella solenne
condanna, divennero di giurisdizione imperiale; ma pochi giorni durava
il nuovo governo, ché il Marchese, cui certamente non mancavano
coraggio e destrezza nelle avversità, radunata molta gente, si
recava a fare l’assedio di Este, e senza grave stento la rioccupava
allontanandone la guarnigione dell’Imperatore, la quale si era
già arresa alle sue armi. Quindi armata mano ricuperava il forte
di Bavone; e quello di Lozzo prendeva colla fame contro i Saraceni che
fin all’estremo fiato vi resistettero. Ebbe Calaone col terror
delle macchine da guerra, e tosto strinse d’assedio il fortissimo
Cero custodito pure da gente saracena che difettava di vettovaglie.
Ecelino voleva soccorrere almeno questa ultima rocca ponendo il suo
campo tra Bavone e Calaone, sperando che il Marchese ne levasse l’assedio.
Ma questi non ristava, ed i suoi Estensi stavano trincierati sulla sommità
del monte, mentre Ecelino era così obbligato a rimanersene al
piano. Finalmente il da Romano accortosi che aveva a che fare con guerrieri
non punto inferiori ai suoi, levò il campo verso Padova, e tosto
l’abbandonato Cero si arrese al suo antico padrone. Ci dicono
i cronisti che Azzo vietò che fosse fatto insulto a quegl’infedeli.
Qui vediamo Azzo ricovrare in se stesso quell’antico coraggio
e bravura militare che erano retaggio della sua famiglia; e nel tempo
stesso mostrar quell’ereditaria clemenza che fe’ tanto onore
a lui e al suo casato, benché que’ ferrei tempi altrimenti
dimostrassero dover avvenire.
Infrattanto Papa Gregorio IX, dopo aver scomunicato Ecelino, incitava
i Guelfi a riprendere Ferrara, che stava tuttora in mano del ghibellino
Salinguerra. Sì destramente seppe maneggiarsi il Marchese che
tirò nella sua lega anche il Doge di Venezia Jacopo Tiepolo e
Alberico da Romano, allora Signore di Trevigi, e finalmente il comune
di Mantova. Unite tutte le forze, portossi il Marchese all’assedio
di Ferrara (Febbraio 1240) dalla quale era lontano da ben 18 anni. I
Padovani ed i Veronesi con a capo Ecelino tentarono di prendere alle
spalle il Marchese, ma questi dopo provato qualche svantaggio, finì
col prendere d’assalto i due castelli della Fratta e di Gabbo.
Stanchi gli assedianti commisero atto vile, che le fazioni a quell’epoca
di troppo si permettevano. Dopo cinque mesi di ostinato assedio, i Marchesani
invitarono il Salinguerra ad uscire dalla città (Giugno) sotto
apparenza di trattare di pace. Lasciatosi abbindolare quel feroce ghibellino,
uscì incontro agli assedianti, i quali tosto lo riconducevano
festanti entro la città, ma ivi sotto falsi pretesti lo dichiararono
lor prigioniero, facendolo poi tradurre a Venezia, dove ottuagenario
finì sua mortale carriera, vissuto sempre fra le armi e le guerre
di partito, e sempre nemico agli Estensi.
Riccobaldo scrittore ferrarese dello stesso secolo, a discolpa di Azzo
arrecato in campo dallo stesso Verci , ci avverte che desso si era dichiarato
ai collegati contrario a quella perfidia, e di ciò ci è
chiaro indizio inoltre vedere lo stesso Marchese adoperarsi per la liberazione
di Giacomo detto Torello figlio a Salinguerra, in grata memoria dell’antico
amico di sua casa, Torello anch’esso nominato, avo del giovinetto
del quale già favellammo (pag.269). Anche questo ci è
narrato dal Verci.
Il Marchese, sconfitti così i ghibellini, riprendeva la signoria
di Ferrara, già a suo padre e successori tramandata dal popolo
ferrarese fino all’anno 1208 (pag. 300).
Ma Ecelino lungi dall’acquietarsi, spiava il destro per trarre
aspra vendetta di tante vittorie del Marchese, e già aveva teso
la tela di un tradimento coi fidati del Marchese, perché gli
fossero consegnati i castelli estensi (1241). Qui abbiamo un fatto peculiare
che dimostra quale affezione nutrissero gli Estensi pei loro Marchesi.
Una donna estense, di cui il nome restava ignoto, avendo adocchiato
un certo Olderico leggere delle lettere in luogo nascosto, riferì
la cosa a Pileo da Vicenza figlio di Uguccione che in quest’anno
era Podestà di Este a nome del marchese; e addandosi quegli di
un qualche tradimento poté scoprirne gli autori fra i quali ci
ricorda la storia un Buontraverso de’ Maltraversi di Padova, che
a tempo poté svignarsela, correndo ad Ecelino che l’accolse
a braccia aperte, mentre gli altri congiurati ebber nel capo la meritata
punizione (13 Settembre) .
Non così però la scappò il castello di Montagnana,
sulla quale Ecelino aveva una giurata vendetta da disfogare (pag. 353).
Egli trovandosi a Lonigo colle sue forze, riuscì a mandar chetamene
entro il castello degli incendiarj (25 Marzo 1242), i quali appiccarono
il fuoco in vari siti dell’abitato, e vi andava tutto in fiamme.
Il marchese Azzo avutone indizio, saliva dal suo palazzo sulla rocca
di Este, ed osservato quello scempio, accorreva tosto in ajuto co’
suoi estensi, ma giunto entro il castello, avuta la notizia esser molto
davvicino l’oste veronese con alla testa Ecelino,fece mettere
fuoco al resto di quella terra desolata, e con quanto poté radunare
d’uomini, donne e fanciulli fece ritorno al castello d’Este,
i cui abitanti si adoprarono tosto per alleviare la sventura dei profughi.
Ecelino il giorno appresso entrava nella deserta Montagnana, e avvisatosi
esser quella
una buona posizione specialmente per tener in soggezione il Marchese,
fe’ tosto risorgere, anzi ampliare le mura del castello da renderlo
molto più formidabile per l’avvenire.
La guerra a quest’epoca era incessante sul territorio atestino
come per tutta la Marca trivigiana. A quando a quando pullulavano congiure
de’ cittadini di Padova contro il loro tiranno, invocando essi
quasi sempre il soccorso del Marchese, il quale speravano, quando volesse
Iddio, dover essere il di struggitore della tirannide eceliniana.
Spetta alla storia di quella città il narrare, siccome dalla
scoperta di quelle macchi-nazioni ne fosse resa sempre più audace
la crudeltà di quel feroce, il quale sempre temendo della potenza
marchionale, mandava a quando a quando le sue genti a far saggio di
sangue e di rapine sul territorio atestino. E così trascorsero
tre anni (1243-46) di miseria e di lutto senza che imprese decisive
si effettuassero in queste contrade. Solo faremo ricordanze di un Breve
del 1243 (9 Ottobre) di Papa Innocenzo IV rilasciato al Marchese, col
quale dichiarava di circondarlo di tutta la sua benevolenza e protezione
quanto alla sua persona e quanto ai beni che dalla Chiesa gli erano
pervenuti, siccome fosse il più fervente propugnatore della chiesa
cattolica apostolica .
L’anno susseguente (1247) il Marchese, unitosi co’ Mantovani
e col Conte Sambo-nifacio suo antico amico e coi fuorusciti guelfi,
assalì alla villa di Gazzoldo gli Eceliniani ch’eran diretti
all’assedio di Parma; ed i Veronesi che marciavano alla coda assai
soffe-rivano dagli assalti de’ marchesani. Feroce ne uscì
uno scontro al di là del Mincio restando molti prigionieri e
morti d’ambo le parti; il calore del cielo infuocato in quel giorno
divise il resto delle due armate. Nell’anno stesso il Marchese
co’ Mantovani, Genovesi, Caminesi e con Alberico da Romano conducente
i Trivigiani, stava all’impresa di Parma, che i Guelfi volevano
liberare dall’assedio strettole attorno dagl’imperiali,
i quali avevano vicino a Parma fabbricata una nuova città chiamandola
troppo precomente Vittoria. Ecelino accorso in ajuto dell’Imperatore
co’ suoi collegati non poté impedire che dopo reciproci
danni di guerra, non venisse espugnata, sempre assistente il Marchese,
e distrutta col ferro e col fuoco la nuova città; quindi Parma
stessa venne liberata dal lunghissimo assedio dopo grande strage degl’imperiali
(18 Febbraio 1248).
Ecelino, fallita quest’impresa, non desisteva per questo dall’armi.
Avea deciso di finirla col Marchese e distruggere lui e la sua prosapia
intera, divenuta quasi unico ostacolo alla sua ambizione e grandezza.
Cominciò col romperla anche cogl’imperiali; servendosi
dell’opera di un certo Pesce di Monselice, tolse agli ufficiali
dell’imperatore quella fortissima rocca, e v’introdusse
un suo presidio. Indi rivolse ogni sua mira guerresca contro Este ed
i vicini castelli (1249). Raccolto grosso esercito di Padovani, Vicentini,
Pedemontani, Asolani e Bassanesi volle che fossero preparate vettovaglie
per 20 giorni e finse di recarsi in Lombardia. Giunto a Legnago (20
Settembre) fece venire 400 pedoni da Verona cui fece salire dei focosi
destrieri coperti di metalliche piastre. Alla metà della notte
Ecelino ordina una contromarcia, e si presenta improvvisamente innanzi
alla piazza di Este, ove un traditore chiamato Vitaliano di Arolda corrotto
dall’ora, aprì al nemico la porta che guardava a Montagnana.
Gli Estensi sorpresi fuggono sparpagliati, chi entro la rocca difesa
da Manfredo de’ Paltanieri nobile padovano, altri verso Rovigo,
ed altri ne’ vicini castelli di Bavone, Cero e Calaone. Tanto
terrore inspirava ai popoli la presenza di un Ecelino; il quale messe
dapprima a sacco le circostanti terre, si diede a tuta forza a battere
la rocca estense con betifredi o torri di legno, petriere e trabocchi,
che di giorno e di notte flagellavano le mura. Ci è narrato che
una sola di quelle macchine roteava delle pietre pesanti più
che 2000 libbre. Azzo, che per isfortunata circostanza si trovava allora
a Ferrara colla carica di Podestà, aveva già addietro
fortificata la rocca estense (pag. 350), e qui vediamo appunto quanto
fosse divenuta adatta a forte resistenza. Difatto Ecelino a rinforzo
degli assedianti è costretto a chiamare in suo aiuto mille pedoni
da Padova ed altri mille dai circonvicini villaggi. Stretta così
la nostra rocca, invano aspettando soccorsi dal di fuori, dopo un mese
della più coraggiosa resistenza, dovette arrendersi, però
ad oneste condizioni, cioè salve le sostanze e le persone. Anche
qui troviamo (pag. 352) il fiero Ecelino risparmiare le usate sue crudeltà
sugli estensi, cui voleva, se possibil fosse, affezionare al suo partito
e al suo potere. Cogli stessi patti si arresero Bavone, Vighizzolo e
Vescovana. I fortissimi castelli di Cero e Calaone si contentò
Ecelino di tenere bloccati, acciò non vi entrassero vettovaglie
di sorte. Avvezzati già i militi estensi alle fazioni guerresche
nelle continue lotte, le quali dovevano sostenere, o al di fuori condotti
dai Marchesi, o per difendere le proprie mura, veggiamo in quell’assedio
quanto si fossero già avanzati nell’arte della guerra,
e v’è motivo veramente a rattristarsi di non aver noi cronache
atestine contemporanee che le più belle circostanze e fatti memorabili
ci tramandassero in quel celebre assedio. Non posso fare a meno di osservare
col Verci siccome assai strano ci sembri perché il Marchese non
profittasse della protratta resistenza degli Estensi per accorrere in
loro aiuto co’ suoi Ferraresi, dei quali poteva disporre. Le cronache
tacciono su questo punto, e noi a tanta distanza di tempi o di cose
non sapremmo azzardare alcuna conghiettura, se non forse ne stesse il
motivo nella già preponderante potenza di Ecelino, che a quest’epoca
teneva grandissime forze a’ suoi comandi, ed era nella Marca onnipotente.
Il Marchese però non ristava dal preparare una formidabil riscossa,
e tosto stringeva lega contro di Ecelino col Sambonifacio e Bertoldo
Patriarca di Aquileja. Morto poco appresso Federico imperatore (1250)
il partito guelfo in Italia si disponeva a riprender fiato. Ma calato
in Italia Corrado successo a Federico, prese egli tosto a consigliarsi
con Ecelino, alle cui suggestioni dobbiamo certamente imputare la morte
di veleno propinata a Rinaldo unico figlio del Marchese Azzo, quel giovinetto
che abbiam veduto (pag. 356) tradotto in Puglia colla moglie sua Adelaide
da Romano quale ostaggio all’impero . A temperare un tale dolore,
Azzo poté raccogliere nelle sue braccia il nipote Obizzo figlio
di que’ sfortunati, che contava soli quattro anni, divenuto la
delizia dell’avo, e l’unico sostegno dell’estense
prosapia.
Non posso permettere qui di volo, ciò spettando alla storia ferrarese,
di notare siccome Azzo precedette i suoi grandi posteri, e fu tra’
primi in Italia che accordasse nella sua corte protezione ai letterati
e poeti, i quali già schiudevano l’era del risorgimento
italiano. Esisteva a Ferrara ed ora si trova a Modena un prezioso codice
estense in pergamena, nel quale sono raccolte varie poesie in lingua
provenzale venuta allora di moda in Lombardia. Tra i poeti che scrissero
que’ versi, è nominato certo mastro Ferrari ferrarese insigne
improvvisatore, per opra del quale venne compilato quel codice, e di
cui è detto in una nota posta alla fine del libro:
<< Mastro Ferrari fu da Ferrara e fu giullare e s’intendeva
meglio di trovare, ossia poe-<<tar provenzale che alcun uomo che
fosse in Lombardia. E meglio intendeva la lingua <<provenzale,
che sapea molto ben leggere e nello scrivere persona non avea che il
<<pareggiasse. Fece di molti buoni libri e belli. Cortese uomo
fu di sua persona; andò e <<volentieri servì a baroni
e Cavalieri, e a suoi tempi stette nella casa d’Este; e quando
<<occorreva che i Marchesi facessero festa a corte, vi concorreano
i giullari che <<s’intendevano della lingua provenzale e
andavano tutti a lui che il chiamavano loro <<Maestro. E se alcun
vi venia che se n’intendesse meglio degli altri e che facesse
<<questioni di suo Trovare o d’altrui; Mastro Ferrari gli
rispondea all’improvviso in maniera <<che egli era primo
campione nella corte del Marchese di Este … si portava (il Ferrari)
a <<Trevigi a messere Girardo da Camino, ed a’ suoi figlioli,
che gli facevano grande onore, <<e li vedeano volentieri, e con
molte accoglienze, e il regalavano volentieri per bontà di <<lui
e per amore del Marchese di Este>>.
Comeché vedemmo la casa estense tener sua corte molto a lungo
in quest’epoca, oltreché in Ferrara anche in Este, è
agevole il dedurne che quei poeti frequentassero anche il palazzo marchionale
in Este, e quivi cantassero le antiche glorie de’ Marchesi e il
bel paese che loro avea dato la culla e il nome.
Ma il suono de’ versi non ammolliva ancora le anime, né
dalle armi toglieva que’ cuori già avvezzi alle battaglie
e al sangue. E già la giustizia di Dio andava affrettando l’estremo
eccidio del tiranno, e a noi estensi la liberazione dal servaggio. S’era
rinnovata contro l’imperatore Corrado l’antica lega lombarda,
alla quale mentre teneva sua residenza in Brescia, si presentarono i
deputati del marchese Azzo. Ivi fu preso che si dovesse tener pronto
nella Marca un forte esercito col quale prestar soccorso all’uopo
al Marchese, al Sambonifacio e a que’ di Camino. Azzo era già
additato per tutta Italia quale futuro salvatore delle libertà
italiane, ed a tal fine Papa Alessandro II succeduto ad Innocenzo (1254)
suscitava la santa crociata ponendo a capitano generale di quella il
Marchese, il solo che valesse ad abbassare una volta e annichilare la
tracotanza del Da Romano, la cui preponderanza era al colmo nella Marca
e in tutta la Lombardia. Ecelino preferiva di abitare a Verona, mentre
il triste esecutore de’ suoi ordini Ansedisio, commetteva orribili
massacri sui cittadini padovani, colla più cruda sincerità
narrati dai cronisti contemporanei. Rimane oscuro se sieno stati rispettati
gli Estensi quando già il tiranno all’apice della sua potenza,
e superati coll’armi i Marchesi, dovea disdegnare ormai di usar
riguardi, come soleva per lo innanzi a chicchessia de’ suoi soggetti.
Nel silenzio della storia noi non sospetteremo nuovi delitti, e non
riverseremo nuove tristizie sulla memoria bastantemente esecrata di
quel tiranno. Già il tempo era giunto (1256) delle vendette e
della pugna ad ultimo sangue per liberar la terra da quell’uomo.
E prima fu Padova ad alzar la bandiera della rivolta, accogliendo ben
presto entro le sue mura Filippo arcivescovo di Ravenna legato per la
S. Fede co’ suoi armigeri crocesegnati (20 Giugno). Azzo frattanto
con Fer-raresi e Bolognesi accorreva in ajuto di Mantova minacciata
da Ecelino co’ suoi Cremonesi che stavano al depredamento ed alle
strage per quella campagna. Udita ch’ebbe Ecelino la presa di
Padova, esterrefatto si ritirava a Verona. Il Marchese intravide tosto
esser venuta propizia occasione per affrettarsi al recupero di Este
e finitimi castelli. Gli Atestini ed i Montagnanesi si arresero al loro
antico Signore di pieno volere, restandoci ignoto se i presidii eceliniani
si tenessero fermi sull’armi per qualche tempo.
Io terrei probabile che, avvenuta la liberazione di Padova, le forze
eceliniane si ritiras-sero dai meno forti castelli e si riducessero,
siccome avvenne, sulle rocche di Calaone, Cero e Monselice, fortezze
allora quasi inespugnabili. Questa è la terza volta in cui i
Marchesi lottarono per ricuperare l’antica loro terra di Este,
indizio sicuro di quanto cara la teneano, siccome nucleo della loro
potenza e grata memoria del nome del loro illustre Casato. Non era però
finito l’oprare pel Marchese sempre infaticabile nell’armi,
ché Padova avea d’uopo di pronti soccorsi contro il tiranno
che già si avanzava minaccioso per ricovrare la sua preda. Iddio
non permise tanta sciagura per l’umanità. Il Marchese,
al quale erasi unito anche Alberico Da Romano, venne eletto dai padovani
e collegati lor capitan generale e marasciallo; fatta questa elezione
<< i popoli si sentirono più rassicurati <<mercé
la gradezza, sapienza e valore del Marchese signore>>.
Azzo, raccolte le forze, fece una sortita dalla città per respingere
il nemico che faceva tentativi di assalto alle porte. Ecelino risospinto
dal valor dei Marchesani, non mai abbandonando l’innata ferocia,
abbruciava i propri alloggiamenti in un coi villaggi di Brusegana e
Cartura, e si ritraeva scornato, ma non iscoraggiato per una riscossa,
a Vicenza, donde poi passava a Verona. A me non ispetta narrare quanto
altro fece in que’ giorni Ecelino nella Marca per prepararsi alla
guerra che terribile gli soprastava.
Ritornando ora al nostro Marchese ed a’ nostri focolari, vediamo
tosto rivolgersi Azzo a quelle fortezze che pel Da Romano ancora tenevano.
Gli riuscì di guadagnare con denaro e promesse Gerardo e Profeta
che difendevano ancora i gironi superiori della rocca monselicana, egli
ebbe tosto in suo potere. Poco appresso gli arresero Cero e Calaone.
Ma Gerardo per rientrare in grazia del tradito suo padrone Ecelino,
propose a lui stesso di spegnere di sua mano il Marchese d’Este;
ed avrebbe eseguito anche il secondo tradi-mento, se a tempo discoperto
l’infame mercato, lo stesso Gerardo senza occhi e tagliato il
naso, non fosse stato così malconcio mandato a Vicenza ove stava
allora il tiranno. Anche Profeta andava macchinando contro la vita del
Marchese, ma scoperto in complicità con un certo Giacomaccio
nobile trivigiano, vennero ambedue decapitati in piazza a Monse-lice.
Tali punizioni erano inusitate ai Marchesi estensi, ma il tradimento
rende sovente meno clementi i principi più miti e magnanimi.
Ci narra Paris da Cereta cronista veronese, che Legnago stanco anch’esso
della tiran-nide eceliniana, ucciso il podestà, inalberò
le insegne estensi, e così faceva Cologna, che però fu
ben tosto ripresa da Ecelino, al quale non mancava mai accortezza e
celerità nel condurre le sue imprese ben degne di causa migliore;
che anzi il Da Romano si rendeva vittorioso per poco anche contro i
collegati, e fu allorquando il legato arcivescovo co’ Bresciani
e Mantovani (1258), senza voler attendere il Marchese che veniva al
soccorso de’ Ferraresi, facea un impeto fuor di tempo con Ecelino,
il quale alla sua volta lo sbara- gliò, traendo lui stesso prigioniero
nelle sue mani . Questi tosto s’impadronisce di Brescia, e già
confida di nuovo nella sua stella. Ma la lega all’invece si rendeva
più forte, entrandone a parte i Pallavicini e Buoso da Bovara,
famiglie potentissime da Cremona prima ghibelline; e così si
rivolsero alla parte guelfa i Milanesi, i Cremaschi ed altri Lom-bardi.
L’anima di tutto era il Marchese, il quale si potea allora tenere
per Signore anche di Padova, mentre come scrive Rolandino, tanta fiducia
avevano in lui i padovani cittadini, che tutta la cosa pubblica diedero
alla sua saggezza e consiglio da governare.
Andato a vuoto il tentativo di Ecelino sopra Milano, che riuscito avrebbe
forse cangiato faccia a tutti gli affari d’Italia, fece quegli
ritorno al ponte di Cassano sul fiume Adda; il Marchese cogli alleati
la notte istessa lo espugnava e prendeva tutti i passi, pei quali Ecelino
poteva sperare una fuga. Ma questi non iscoraggiato si presentava di
nuovo la mattina seguente sul ponte per isforzarlo, quando nel calor
della zuffa venne côlto da una saetta nemica, per cui doveva ritirarsi
a Vimercate. Al mezzo giorno del dì appresso (16 Settembre 1259)
quel feroce, trovato un guado nel fiume, lo ripassava colla sua cavalleria,
ma ivi trovò di contro il Marchese con tutto l’esercito
crociato. Abbandonato dai Bresciani, attorniato da ogni parte cadde
nelle mani de’ suoi nemici. Condotto tosto con ogni riguardo a
Soncino, ivi spirava l’anima triste, restando la vittoria ai Guelfi
e con essi alla Casa Estense, che per secoli dovea sussistere onorata
e grande a gloria d’Italia tutta. Poco dopo Alberico Da Romano
fu posto fuor dalla legge, e preso il castello di S. Zenone, dove stava
appiattato, venne sterminata tutta quella esecrata famiglia, la cui
memoria dovea indicare tirannia e ferocia brutale alla posterità.
Azzo VII proclamato a liberatore dalla tirannide in tutta Italia, si
mise a riordinare i propri stati, che oramai senza interruzione si estendevano
dai colli estensi, pel montagnanese e polesine, fino a Ferrara. Colla
caduta di Ecelino, Este sfuggiva a certa sventura, che l’avrebbe
colpita, se un’altra volta quel fiero uomo avesse ripreso quelle
contrade.
CAPO IV
NUOVO PATTO TRA AZZO VII ED IL
COMUNE DI PADOVA SU ESTE E SUO TERRITORIO. LA CASA ESTENSE SI STABILISCE
A FERRARA.
DEFINITIVA OCCUPAZIONE DI ESTE PEL COMUNE DI PADOVA, E TRATTATO FINALE
TRA QUESTO E I MARCHESI
1260 - 1293
È pur doloroso che troppo
di sovente la nera ingratitudine tenga dietro ai benefizj per umana
malignità, e noi ne avremo qui tosto un esempio. Dopoché
l’esercito padovano espugnava per la prima volta la rocca di Este
(1213), abbenchè quel fatto venisse disap-provato formalmente
dal Pontefice (pag. 316) e poscia dall’Imperatore (pag. 341) e
benché i Marchesi con successivo imperiale Rescritto (pag. 341)
venissero pienamente rivestiti delle loro antiche giurisdizioni sopra
Este e territorio, il Comune di Padova v’ebbe nullameno sempre
gli occhi sopra, e non lasciava passare alcuna occasione senza turbare
i Marchesi nel libero esercizio de’ loro diritti. Eppure, caduto
Ecelino per opra principal-mente del prode Marchese Azzo, a cui quel
Senato avea consegnato il vessillo e dato il supremo potere dell’armi,
mentre la città era minacciata dall’ultimo eccidio (pag.
369), sembrava almeno che si dovesse alquanto temporeggiare. Ma così
non avvenne. L’anno seguente alla caduta del tiranno (1260) troviamo
già i Padovani rinnovar le loro pretensioni sopra Este, Calaone
e Montagnana. Il Marchese dovè lamentarsene assai, ma stremato
com’era di forze e di denaro, dopo una guerra decennale, alla
fine si prestò ad un componimento (8 Agosto) che a prima giunta
ci addimostra che Azzo per togliersi a nuove liti e nuova guerra, dovè
fare alcune concessioni al Comune di Padova, il quale poi dichiarava
di rispettare integre ed incolumi le antiche possessioni della casa
estense. Eccone la somma:
- Si mantengano al Marchese e successori sopra ai paesi a lui pervenuti
per diplomi imperiali, tutti i diritti di civile e criminale giurisdizione.
Dichiaransi le terre estensi immuni da ogni sorta di balzelli e aggravii
inverso al Comune di Padova.
- Riservasi al Marchese il diritto di imporre a suo talento le pubbliche
gravezze con-forme alle sue antiche giurisdizioni.
- D’altra parte i Padovani si ritengono immuni da qualunque angaria
passando per le terre estensi o colla persona o con merci di qualunque
sorta.
- Il Marchese dovrà contribuire nei casi di occorrenza uomini
e denaro per l’esercito e la cavalleria del Comune di Padova dietro
gli ordini di quel Podestà.
- Questa convenzione farà parte dello statuto padovano. -.
Abbenché Azzo con questo trattato si fosse piegato più
che non avrebbe voluto, vediamo però in quanto pregio fosse tenuto
il suo valor militare, mentre la repubblica padovana lo volle specialmente
a sé unito quanto alle armi e pella bravura dei guerreg-gianti
che seco conduceva alle pugne. D’altro canto poi ci è manifesto
quel documento, siccome la casa estense rimaneva tuttora in pieno possesso
de’ suoi antichi diritti marchio-nali sulle terre atestine, come
quelle che nulla doveano contribuire al Comune di Padova, solamente
agli ordini dei Marchesi stavano soggette, sussistendo però sempre
in Este, siccome notammo altra volta (pag. 274), la comunale rappresentanza.
Dopo lunghe e dispendiose vicende della passata guerra eceliniana, il
Marchese trovavasi in qualche angustia, e noi lo troviamo l’anno
stesso (1260) far alienazione al Comune di Padova di alcune vigne, oliveti
e giardini di sua ragione posti sul Montericco di Monselice assieme
a’ vassalli e beni infeudati - .
Liberata Verona dal tiranno, seguitava però entro di essa ad
agitarsi la fazione ghibellina. Allora fu (1261) che salendo dal basso
stato Mastino della Scala eletto a Po-destà di Verona die’
principio alla futura grandezza del suo casato, che salì a grande
potenza in Italia nel secolo XIV, e dopo lunghe guerre combattute sul
nostro territorio, ebbe anche politica giurisdizione in Este, siccome
a suo luogo vedremo.
Azzo frattanto ripigliava le armi, e conducendo le sue genti atestine
e ferraresi col soccorso anche dei fuorusciti Veronesi, si impadroniva
armata mano di Cologna, Sabbione e Legnago, e del girone del castello
di Porto. Ebbe ancora il Marchese in quest’anno a scoprire una
congiura contro di lui ordita a Ferrara da Giacomaccio de’ Trotti
ed altri dell’antico partito del Salinguerra. Dovettero que’
ghibellini scontar colla testa il loro tradi-mento.
Dopo tanti periodi e vicende godevasi una dolce pace, quando venne l’invida
morte a colpir il prode Marchese, e fu il 17 Febbrajo del 1264. Lasciava
egli le avite sue glorie ed i beni tutti al giovinetto suo nipote Obizzo
raccomandandolo al cardinal Ottobono e ai Comuni di Padova, Ferrara
e Mantova. Somme e ben meritate lodi tributarono i cronisti guelfi contemporanei
al Marchese Azzo VII, siccome all’uomo ch’ebbe la principal
parte per abbattere il celebre nemico della chiesa e delle libertà
italiche, Ecelino, talché Azzo. Il difensor della chiesa si soprannominava.
Gli stessi scrittori anche ghibellini ci narrano le lagrime sparse in
grande copia sulla mortal salma del Marchese estense da’ suoi
Ferraresi ed Estensi. Ma più alto ci parlano i fatti gloriosi
in pace ed in guerra da lui compiuti; guerriero fra’ più
coraggiosi non mai perdé l’animo nei casi avversi, ma più
intrepido risorgeva alle riscosse ed alle battaglie, e quest’Este
due volte per lui perduta, due volte era riconquistata e tolta alla
più odiata tirannide. Per ben 47 anni governò il suo stato,
e per tutto quel tratto rappresentò il partito e la possenza
de’ Guelfi in Italia, cui fe’ risorgere in un colle libertà
italiane, specialmente superando coll’armi i capi del ghibellismo
Salin-guerra ed Ecelino. Tutti e tre furono spirti italiani, di ardimento
e valore ripieni, ma quale di essi conseguiva una vera gloria? A noi
posteri non è arduo il decidere.
Compiva allora Obizzo gli anni 17 di sua età, e in onta ai sospetti
sparsi dai suoi nemici sulla sua legittimità, venne acclamato
a Signore di Ferrara a cura specialmente di Alighieri della Fontana,
e di questa rinnovata (pag. 300) elezione se ne eresse un nuovo statuto
. Valore e prudenza, eredità degli avi, bentosto Obizzo dimostrava.
Calato in Italia Carlo d’Anjou alla conquista del regno di Napoli,
il Marchese siccome Guelfo, si dichiarava pel francese, ed andava ad
incontrarlo co’ Ferraresi e Mantovani, accompagnandolo fino a
Montechiaro. Fatto un ponte sul Po, Carlo transitò per quello,
ed Obizzo lo seguitò fino a Roma dove sul Campidoglio venne fatta
particolar lega tra il marchese ed il d’Anjou contro Manfredi
re di Sicilia. In tanto pregio teneva Carlo l’amicizia ed i soccorsi
del Marchese d’ Este! Non ci è storicamente avverato se
il Marchese abbia mai spedito ajuto di armi per quella conquista; è
certo bensì che egli spedì suoi delegati al congresso
che si tenne a Milano (13 Marzo 1265) tra molte città italiche,
i cui rappresentanti fecer giuramento di sostenere in Carlo il partito
de’ guelfi in Italia.
Trapassiamo innanzi ai grandi eventi che successero allora in Italia,
ch’ebber per termine la vittoria di Carlo. Essendo passato di
vita quell’Aldighieri che tanto aveva soste-nuto il Marchese in
Ferrara, un fratello ed un figlio di quello fecer congiura di togliere
alla casa d’Este la signoria di Ferrara (1270). Ma prevalse il
valor del Marchese sui congiurati, che preser la fuga, ai quali però
l’anno seguente Azzo per tratto di bontà permise di rientrare
nella loro patria. Ma non andò guari che mal si corrispose alla
clemenza del Principe, ché i Fontanesi si rivoltarono di nuovo
(1270), ma il popolo di Ferrara si dichia-rava pel Marchese, e dopo
una fiera zuffa entro la città, la più parte dei sollevati
ne furono a forza discacciati. Dopo un tal fatto si consolidava la signoria
della casa estense in Ferrara.
Noteremo qui noi estensi, siccome Obizzo, stanco forse delle lunghe
liti co’ Padovani già mal sofferenti un Principe potente
lor vicino, si era decisamente stabilito in Ferrara; locché certamente
rapiva di molte speranze a questa patria, la quale mercé la magnifi-cenza
e splendore della corte marchesina già aspirava ad ottenere un
nobile posto tra le principali città italiane; ed egli è
certo che i Marchesi avrebbero anche Este decorata ed ampliata, siccome
poi allargarono o protessero la più fortunata Ferrara. Ma non
rimpian-giamo quanto lassù fu disposto, dove si puote ciò
che si vuole.
Dell’anno 1276 abbiamo un bel documento a questa storia attinente,
dal quale ci è dato riconoscere che i Marchesi continuavano a
tenere l’intera loro giurisdizione in Este. Rodolfo I d’
Hasburg creato imperatore (1273) mandò in Italia (1275) Ridolfo
Cancelliere in qualità di Vicario dell’impero per richiamare
in vita i diritti imperiali, che dalla morte di Federico II a causa
del lungo interregno (1256-1273) si erano grandemente alterati e scomposti.
Ridolfo venne onorevolmente ricevuto a Ferrara dal marchese Obizzo.
Ivi fu dal Vicario imperiale rilasciata tosto una rinnovazione d’investitura
a favore dell’ospite illustre (30 Marzo 1276) dei beni aviti della
famiglia estense, che fino dall’epoca di Alberto Azzo II nel 1077
(pag. 243) erano stati ritenuti di concessione imperiale; e sono ivi
nominati al solito per primo Este, quindi Calaone, Cero, Bavone, Solesino,
Villa di Villa colla sua corte, Montagnana, Migliadino, Urbana, Piacenza,
Cologna colla sua corte, Saletto, Casale, Vighizzolo, e il contado di
Rovigo, e quanto tengono i Marchesi nel territorio adriese. Si concede
in pari tempo la piena giurisdizione col privilegiato diritto di spedire
nunzii, fatto espresso divieto a città, comuni, duchi, conti,
visconti, podestà ecclesiastiche e secolari, di recar detrimento
in qualsiasi guisa alle giurisdizioni mar-chionali sulle predette terre
e castella . Ecco adunque siccome a quest’epoca sussisteva tuttora
intatto quel dominio misto dei Marchesi sopra Este, del qual non avevano
mai abusato, sussistendo sempre la Comunità atestina, la quale
avea già avuto un tempo il civile coraggio di muover liti di
giurisdizione contro gli stessi Marchesi appellandone fino all’impero
(pag. 274).
Ma frattanto i Padovani mettevano a loro pro la lontananza della Casa
estense, e quel disamore che primo fra i Marchesi Obizzo avea concepito
pe’ suoi stati di qua dell’Adige, per ingerirsi nelle cose
degli Estensi, e spedirci a forza loro rappresentanti,come altre volte
avevano fatto. Ho veduto uno statuto di Padova del 1216 il quale stabilisce
l’elezione di podestà da farsi ad ogni semestre in vari
siti del padovano, fra’ quali troviamo appunto Este e Montagnana
coll’obbligo alle singole Comunità di corrispondere gli
assegnati onorarii. Una rimarchevole differenza però si trova
in quello statuto riguardo ad Este, ché mentre per Montagnana
ed altri luoghi oltre i podestà sono nominati anche i capitani,
per Este non si trova nominato che il solo podestà, al quale
è assegnato cento lire di onorario per 6 mesi coll’obbligo
della non interrotta residenza. Chiaro da ciò apparisce, e da
quanto vedremo più innanzi che la guarnigione in Este e nella
sua rocca ve la teneva il solo Marchese.
Qui siamo affatto all’oscuro del perché quell’Obizzo
che da Ridolfo vicario imperiale si faceva testé rinnovare l’investitura
degli stati estensi, lasciasse poi al Comune di Padova arrogarsi una
siffatta giurisdizione, che indicherebbe un vero dominio già
preso sulle terre atestine. Per poco non vorremmo supporre che i padovani
reggitori in base alle loro antiche pretese di conquista nell’epoca
eceliniana, nominassero il Podestà per Este, ma infatto non ve
lo spedissero, siccome né vi nominavano né vi spedivano
il Capitano; altrimenti si dovrebbe credere che tra Padova e il Marchese
fosse stata conchiusa qualche novella convenzione che fino a noi non
pervenne. E quasi ad accertarne di ciò, vedremo più innanzi
farsi dal Comun di Padova la nomina del Podestà, ed in fatto
non essersi quegli recato mai in Este.
Tra questo suscitavansi fiere discordie (1278) fra’ Padovani collegati
alli Scaligeri contro i Veronesi, a cagione che Trento città
altra fiata dipendente da Verona, a quest’epoca fatta guelfa si
era data alla repubblica padovana, che pochi anni addietro avea sommesso
anche Vicenza al suo governo. Padova allora invocò l’ajuto
del Marche-se, il quale condusse le sue genti co’ Padovani unite,
all’assedio di Cologna, che venne presa dopo 42 giorni di fiero
assalto, e da quanto apparisce, quel castello venne lasciato in potere
del Marchese, il quale vi aveva anche diritto pella imperiale investitura
del 1276 (pag. 380). Sul campo stesso l’anno vegnente (1279) venne
stretta una lega federativa delle città guelfe Padova, Cremona,
Brescia, Parma, Modena e Ferrara ai danni della ghibellina Verona.
I Padovani entrarono di nuovo (1280) nell’agro veronese cogli
Estensi, Caminesi e Friulani, ma frattanto il Comune di Verona chiese
la pace colla mediazione dei Veneziani e Trevigiani e fu così
terminata per allora ogni cosa. Il Marchese oltre Cologna si guadagnò
per quel fatto anche Zimella, Baldaria e Pressana, antichi feudi di
sua famiglia.
In quest’anno per una contesa insorta tra il Comune di Ferrara,
pel quale faceva il Marchese, ed il Doge e Comun di Venezia, s’interposero
pacieri i Padovani, protestando questi che in qualunque evento farebbero
di sostenere il Marchese anche colle armi se occorresse. Fa mestieri
l’indurre che tutto s’acquetasse senza che si avesse ricorso
a mezzi di guerra, mentre non ci è detto da alcuno storico o
cronista come l’affare si terminasse .
La corte di Ferrara intanto grande splendore gettava a sé d’intorno,
e già cominciavano alti ospiti a visitarla. Clemenza figlia dell’imperatore
Rodolfo, che andava moglie a Carlo Martello nipote di Carlo d’Anjou,
venne a Ferrara. Le fece quanto d’onore poté il Marchese,
il quale a questo tempo godeva il pieno favore del pontificato e dell’impero.
A fine di corrispondere a tanta munificenza, Rodolfo deliberò
di rinnovare egli stesso di sua mano l’investitura al Marchese
degli antichi stati estensi, quale l’avea rilasciata il suo Cancelliere
e Vicario pochi anni addietro (pag. 379) ultimo documento che lega diret-tamente
l’istoria nostra con quella dei Marchesi, i quali per le umane
vicende perdettero le terre estensi, ma il nome sempre qual segno di
antica gloria ne vollero ritenere .
L’imperatore volle vieppiù onorare il Marchese coll’investirlo
del mobilissimo incarico di ricevere le appellazioni per tutta la Marca
trivigiana e peculiarmente anche per Monse-lice, dignità già
conferita più volte ad altri Marchesi estensi (pag. 291).
Ma il Comune di Padova reso potente di nuove conquiste, poco o nulla
rispettava gl’imperiali diplomi, e ben presto minacciava di aperta
guerra il Marchese (1282). Indi-spettito Obizzo fe’ allora donazione
fra’ vivi al terzogenito suo figlio Francesco, di quasi tutti
gli antichi suoi possedimenti nell’estense territorio compresi,
con Este e i palazzi Marchionali, e ne abbiamo l’autentico documento
in Muratori . Lo stesso scrittore però ci soggiunge che da altro
istrumento da lui veduto nell’archivio estense chiaramente risulta
tal donazione non essere mai stata posta in esecuzione, forse perché
i Padovani avranno per allora rimesso delle loro pretese.
Splendido matrimonio conchiudeva intanto il Marchese Obizzo pel suo
figlio primo-genito Azzo VIII con Giovanna degli Orsini nipote dell’allora
decesso pontefice Nicolò III. Con grande solennità si
accolse la sposa a Ferrara, ove intervennero legati e ambasciatori da
molte città italiane; e già sempre più avanzavasi
lo splendore della casa estense, alla quale nuovo ed inaspettato ingrandimento
sopraggiungeva a premio dell’alta fama, che di sé aveva
sparsa per tutta l’Italia. La città di Modena era continuamente
esagitata da interne discordie tra il popolo e la nobiltà. I
Bolognesi già stavano per soperchiare l’antica rivale,
quando i cittadini modenesi invocarono il soccorso del Marchese; e questi
senza frapporre indugi, unitosi ai Parmigiani e Cremonesi, allontanava
ogni pericolo da quella città, fiaccando le ire de’ Bolognesi.
Ecco qual fu il primo passo alla signoria dei Principi estensi in quella
nobil contrada che dovea poi rimanere ultimo loro retaggio in Italia.
1284. Ormai troviamo che i Padovani esercitavano atti di vero dominio
su di Este e territorio. È a credersi che Obizzo, rivolte ch’ebbe
tutte le sue mire al proprio ingran-dimento al di là del Po,
assai poco curasse gli aviti beni estensi, cui vedemmo testé
aver fino donati al suo terzogenito; e forse non poteva più sofferire
le continue dissidenze col Comune di Padova. Difatti abbiamo uno Statuto
di quella città di quest’anno, che stabilisce <<
non doversi fare alcun mulino o altro edificio qualunque nella fossa
testé fatta <<nella Scodosia, luogo di confine tra Noi
e i Veronesi, ma debba quella restar libera da <<impedimenti,
né alcuno possa sul fondo della stessa né sulla sua sommità
per <<venticinque piedi all’intorno fare piantagioni od
altro di nuovo. Lo stesso sia inteso del <<fosso della Torre di
Este. Il contravventore sarà punito a norma dell’altro
statuto fatto <<contro quelli che tagliano gli argini, e nell’istessa
pena incorrerà il podestà di <<Montagnana e di Este;
ed i funzionari d’ambedue le comunità saranno tenuti a
fare <<entro tre giorni denuncia al Sig. Podestà di Padova
delle nuove opere fatte nei predetti <<luoghi sotto la pena di
L. 50 per cadaun funzionario e podestà e 100 lire per ognuna
<<delle Comunità >>.
Qui apertamente è stabilito che il Comune di Padova a quest’epoca
aveva diretta ingerenza nelle cose di Este e Montagnana. Ci mancano
i dati per potere al certo stabilire fino a qual punto si estendesse
la padovana giurisdizione, che però piena non poteva essere,
ma piuttosto ancora mal definita, atteso che i Marchesi, sebbene passati
a Ferrara, non avevano però rinunciato ai loro antichi diritti
sulle atestine contrade.
In quest’anno i Padovani vendettero al Marchese Obizzo molti loro
beni situati nella terra lendinarese. Altri luoghi nel Polesine acquistava
Obizzo dai Cattanei di Lendinara e dai Vinciguerra di Verona; i quali
acquistati venivano anche (1285) approvati da Rodolfo imperatore con
apposito Rescritto esistente nell’archivio di Modena .
Al di qua dell’Adige troviamo ancora Obizzo nel 1287, allorché
egli venne ad assistere al solenne matrimonio celebrato a Trevigi tra
Agnese da Camino e Nicolò Conte di Lozzo, famiglia assai potente
in Padova, di cui avremo a parlare in seguito, quando quella fortezza
fatta bersaglio alle zuffe combattute dalli Scaligeri in questi luoghi,
dovè sostenere assedii e rovine.
L’anno 1288 dovea essere celebre nei fasti della casa estense,
laddove a dì 15 Dicem-bre Filippo Boschetti vescovo, Lanfranco
Rangone e Guido Guidoni col cortèo d’altri nobili cittadini
comparvero a Ferrara quali ambasciatori recanti al marchese Obizzo la
elezione di lui fatta a Signore di Modena dal popolo tutto di quel Comune,
offerendogli sull’istante le chiavi della città . Tra i
patti segreti di questa dedizione v’era che Aldobrandino di Obizzo
figlio prendesse in moglie Alda di Tobia Rangone nobile cavalier modenese;
promessa che fu verificata in appresso, dal qual connubio propagossi
poi l’estense prosapia. Accettava Obizzo la nuova Signoria, e
frattanto inviava colà a suo Vicario il Conte Anelli suo cognato
con 150 cavalieri di presidio, e stava egli stesso per recarsi in persona
a prender possesso della nuova dominazione, quando alzandosi da tavola,
un certo Lamberto de’ Bagalieri cavaliere bolognese uno dei convitati,
si avventa contro il Marchese e lo ferisce di coltello nel volto. Il
traditore fu a tempo trattenuto dagli astanti e consegnato alla punitrice
giustizia. Intrepido però Obizzo, medicata ch’ebbe la sua
ferita, volle quel giorno stesso partire da Ferrara, accompagnato da
nobile comitiva di cavalieri, e nel dì 25 Gennaio 1289 veniva
accolto festosamente dal popolo modenese, sul quale richiamò
tosto i benefizj della pace, permettendo agli esiliati di fare ritorno
in patria. L’esempio di Modena venne seguito al più presto
(1290) dalla vicina città di Reggio agitata anch’essa da
cittadine discordie, ed Obizzo accettava il titolo di Signore di Reggio,
e colà pure richiamava in patria i fuorusciti secondo la solita
sua laudabile politica. A quest’epoca deve assegnarsi il colmo
della potenza quanto ad estensione territoriale della casa Estense,
la quale teneva in sua signoria, più o meno temperata dai locali
statuti, tutto quel tratto di terre che si estendevano senza alcuna
interruzione da Este fino al Polesine per mezzo dell’Adige, compreso
tra Rovigo e Adria, e da quello mediante il regal fiume Erìda-no
passando nel ferrarese, modenese e reggiano. Erasi così costituito
uno Stato assai rile-vante nell’alta Italia, in quel tempo in
cui era troppo forse suddiviso in altre piccole repub-bliche e principati
il resto di questa parte d’Italia, detta Lombardia. Sarebbe fuori
del mio soggetto forse il dire che avrebbe guadagnato l’Italia
ne’ suoi grandi interessi e specialmente in quello dell’indipendenza,
se non fosser venute dappoi le gelosie ed i raggiri a diminuire la crescente
potenza di quella Casa, che a buon diritto degna si dimostrava di un
principato e di un regno.
I Padovani furono i primi, che fatti timorosi di quell’allargamento
di potere venuto ai Marchesi, se ne adombrarono, e voller guarentirsene
tanto dalla lor parte che da quella degli Scaligeri di Verona, che andavano
avanzandosi in potenza ed in armi. Non facendo quindi alcun conto dei
forti reclami, eressero un nuovo forte a Castelbaldo su’ confini
appunto, come essi pretendevano, della loro repubblica colla veronese
e cogli altri beni del Marchese oltre l’Adige.
In mezzo a tali scissure Obizzo cesse al comune destino (13 Febbrajo
1293) lasciando tre figli maschi Azzo VIII, Aldobrandino e Francesco,
la cui fraterna discordia divenne assai fatale a Este, siccome tra poco
vedremo .
Obizzo non fu degenere dalle glorie avite, ma Dante d’ira ghibellina
investito ne dà un triste giudizio laddove canta:
<< I’ vidi gente
sotto infino al ciglio:
<< E il gran Centauro disse: Ei son tiranni
<< Che dier nel sangue e nell’aver di piglio
<< Quivi si piangon gli spietti danni:
<< Quivi è Alessandro e Dionisio fero
<< Che fe’ Cecilia aver dolorosi anni;
<< E quella fonte ch’à il pel così nero,
È Azzolino , e quell’altro che è biondo
<< È Obizzo da Este; il qual per vero
<< Fu spento dal figliastro su nel mondo >>.
Il Muratori, all’immensa
erudizione del quale io nulla sarò per aggiungere su questo fatto,
colla solita sua libertà di esposizione non temendo né
il gran nome dell’Alighieri, né l’epoca in cui visse
l’altissimo poeta, contemporanea all’incriminato Marchese,
così conchiude: << ad un poeta ghibellinissimo di cuore
non si dee sì facilmente prestar fede <<allorché
tratta di Obizzo gran fautore della fazione guelfa. Ho io veduto ancora
un <<ragionamento del celebre nostro Alessandro Tassoni scritto
a penna, in cui viene confu-<<tata quella inverisimil diceria
di Dante…>>.
Il popolo di Ferrara era però vivamente attaccato alla casa estense,
giacché, decesso Obizzo appena con nuovo Statuto confermava a
suo Signore perpetuo Azzo VIII e così facevano Modena e Reggio
. I fratelli marchesi Francesco ed Aldobrandino cedettero in apparenza
ogni regime politico ad Azzo, restando in eguali porzioni divisi li
beni di famiglia con peculiare convenzione in relazione a quanto era
stato determinato dal testamento paterno.
Ma non durò guari la fraterna concordia, ché Aldobrandino
lasciandosi pigliare dalle suggestioni di Lanfranco Rangone e di alcuni
altri nobili modenesi, la cui parente Alda aveva già il Marchese
impalmata, scomparve d’un tratto da Ferrara ed a Bologna riparava
colla moglie e co’ figli. Frattanto il Rangone doveva alienare
colle sue mene l’animo dei Modenesi da Azzo, loro eletto Signore.
Aldobrandino usando di una perfidia volle tentare la sorte delle armi
per impadronirsi di Modena e cacciarne il fratello, servendosi dell’opera
del Rangone, però rimanendo egli celato. Ma Tommaso da Sassuolo
spedito dal Mar-chese con buona gente, tenne testa ai congiurati e li
mise in fuga. Aldobrandino però doveva essere l’uomo fatale
per Este. Tentato che ebbe in vano di unire alle sue mire il Comune
di Bologna (Giugno), si recò poco dopo a Padova, dove dimentico
dei patti solenni giurati coi fratelli, chiese di ajuto contro di Azzo,
e per ingraziarsi maggiormente quel Comune, fece solenne esibizione
che tuttora possediamo di alienare a lui stesso i molti suoi beni e
diritti sul territorio di Este, di Lendinara ed altrove. I Padovani
accettarono quell’accordo di buon grado, ché anzi ne fecero
stendere solenne documento .
I Padovani allora colsero quella fortunata occasione per invadere armata
mano il terri-torio atestino; ed eccoci qui a narrare l’ultima
lotta che Este a nome de’ suoi Marchesi sostenne correndo l’anno
1293. Quantunque andasse allora una piovosa stagione autunnale, i militi
padovani attaccarono all’improvviso le fortezze di Este, Calaone
e Cero, tutti e tre in gran parte difese da gente atestina. Non si hanno
le particolari notizie di quelli assedii che dovetter come sempre essere
contrastati dal valore de’ nostri, ma alla fine tutti e tre i
castelli furono presi, in apparenza a nome del marchese Aldobrandino,
ma in fatto a vantaggio della repubblica padovana, siccome poco appresso
avveniva.
Il marchese Azzo stava intanto raccogliendo poderose forze assistito
anche dai Parmi-giani; e già correva al soccorso di Este; ma
fu troppo tardi, mentre i padovani approfittando della opportuna occasione,
avevano già fatte nuove conquiste, oltre che di Este, anche della
Badia, del Barbuglio e di Anguillara. Azzo si trovava a cattivo partito,
e sebbene fosse giunto sulla riva dell’Adige, non credé
sano consiglio arrischiare una battaglia contro un nemico imbaldanzito
dalla vittoria. Si venne allora a trattare di pace mercé i buoni
uffizj di due frati minori spediti a tal uopo nel campo dal Patriarca
di Aquileja.
La qual pace che non abbiamo in vero per esteso, portava che i marchesi
Azzo e Francesco rilasciassero al Comune di Padova, Lusia, la Badia
e la terza parte di Lendi-nara, obbedendo così alle cessioni
fatte ai Padovani dal Marchese Aldobrandino; quanto poi ad Este, si
restituissero bensì ai Marchesi le case e le possessioni che
tenevano in queste parti, ma colla espressa condizione che né
sopra la sommità di Cero e Calaone, né sulla rocca atestina
alcun edifizio mai più potesse essere innalzato. vedremo a suo
luogo che mentre le fortezze di Cero e Calaone non furono più
rialzate, il castello di Este venne riedificato più tardi dai
Carraresi (1339) .
Così veniva tolta la giurisdizione politica alla Casa estense,
che da quasi tre secoli avea prediletto questa terra, culla della sua
grandezza in Italia.
Aldobrandino poi che voleva spodestare suo fratello Azzo di Modena mediante
le forze de’ Padovani, si oppose indarno a tale convenzione che
distruggeva tutte le sue speranze. Così colse il frutto del suo
fraterno tradimento, ed altro non gli rimase che fare una solenne protesta
al Comune di Padova, la quale non ebbe poi alcun favorevole effetto
(14 Maggio 1294) .
I successori di Aldobrandino, i cui posteri mantennero la casa estense,
ed ebbero il principato di Ferrara, Modena e Reggio, non s’acquetarono
mai alla pace fatta da Azzo VIII portante rinuncia agli antichi diritti
sopra Este e suo territorio. E noi li vedremo più avanti a quando
a quando comparire nelle guerre che poscia ebbero a sostenere cogli
Scaligeri e coi Carraresi dominatori di Padova e di Este, rioccupare
anche, se loro cadeva l’occasione, queste terre come di loro avita
ragione feudale, e nel tempo della celebre lega di Cambrai (1509) vedremo
Alfonso estense duca di Ferrara, prender formale possesso di tutta la
regione atestina e di Este stessa; e se gli eventi non tornavano sfavorevoli,
lo avremmo veduto fare di Este una città fortificata a capo dei
suoi possedimenti al di qua dell’Adige.
Ed appunto le nuove guerre desolatrici tra i vicini Comuni e pRincipati,
che spesso si combattevano nelle contrade atestine nel secolo XIV, e
delle quali per lo più eran a parte anche i Marchesi, formeranno
una buona parte di storia estense che ci rimane a narrare fino alla
nostra dedizione alla repubblica veneta (1294-1405) a compimento di
questo terzo Periodo.
CAPO V
ESTE STA SOGGETTO AL COMUNE DI
PADOVA. AZZO VIII MUORE IN ESTE.
GUERRE DEI SUOI EREDI E LOR PRIVATE DIVISIONI.
DEVASTAZIONI DEL TERRITORIO ESTENSE.
ESTE DOPO CRUDO ASSEDIO È PRESA DA SCALIGERO CANE.
QUINDI PASSA NEL GOVERNO DEGLI SCALIGERI
1294 - 1327
Ora il campo di questa storia
va restringendosi tra più brevi confini. I Marchesi d’Este
già divenuti Signori di Ferrara, Modena e Reggio, abbenchè
non avessero ancora fatta rinuncia alla loro avita giurisdizione sopra
Este e suo territorio, ed anzi siccome vedremo, cogliessero sovente
il destro per qualche occasione di guerra di farne il ricupero, nullameno
da qui innanzi puossi ormai considerare l’illustre prosapia degli
Estensi siccome staccata dal governo politico di questa contrada fino
all’Adige, conservando ancora dell’antico feudo atestino
al di là di quel fiume, Rovigo con buona parte del Polesine .
La narrazione quindi delle grandi gesta operate da quegli illustri Marchesi
poi Duchi, che pur sempre persistettero a chiamarsi coll’antico
loro nome di Estensi, sarebbe del tutto estranea al mio soggetto, che
alle storie di Ferrara e di Modena ed alle generali d’Italia più
presto appartiene, laddove la Casa Estense ebbe sua grande parte, e
di molto cooperò alla grandezza e gloria italiana dal decimo
quarto secolo in avanti.
I quali fatti ed imprese degne di ricordanza ebbero a condegno narratore
il grande istoriografo Lodovico Muratori e più modernamente Pompeo
Litta delle celebri famiglie italiane e tutti quelli che più
o meno generalmente la storia italiana pertrattarono.
Che se la istoria nostra, privata di tanto riflesso di gloria, getterà
intorno a sé una luce men viva, non per questo rimarrà
senza memorie e senza suoi fasti nel secolo XIV che fu ripieno di avvenimenti
per tutta l’Italia. Questo suolo atestino venne spesso posto a
segno delle guerriere intraprese degli Scaligeri, dei Carraresi, dei
Visconti tutti anelanti alla propria esaltazione col deprimere i loro
rivali, talché il rimanente di questo terzo periodo (1294-1405),
l’epoca io appellerei dei molti padroni che ci signoreggiarono
a vicenda, fino a che, colta l’opportunità, preda volontaria
ci demmo alla veneta repubblica. Il tale intervallo però a quando
a quando ritroveremo fra di noi un qualcheduno dell’antica casa
estense, la quale benché stabilita a Ferrara ritenea qui e suoi
palazzi e suoi beni allodiali, e vedremo in lei sempre aperta la speranza
di ricuperarne anche il politico reggimento.
Moviamo ora dall’anno 1294, in cui i dominii estensi furon posti
sotto la repubblica padovana, la quale già mercé i grandi
uomini che la illustravano al di dentro e mercé le sue conquiste
al di fuori, teneva un gran peso sulle cose della Marca trivigiana.
Sembra a vero dire che gli Estensi passati a nuovo regime gran fatto
non vi stessero contenti, perché replicati statuti s’imposero
da quel Comune, i quali proibiscono sotto severe pene agli atestini
abitatori la delazione di armi senza la dovuta licenza, commi-nando
severissime pene ai pubblici funzionarii che non ne facessero le dovute
denuncie e tali ordini vennero inseriti nello Statuto atestino compilato
e pubblicato nell’anno 1318 .
Avvenimento grato agli Estensi, ma che ben presto riuscì doloroso
oltre modo, accadeva sul principiar del secolo XIV. Il marchese d’Este
Azzo VIII signore di Ferrara e di Modena affetto da cruda malattia veniva
consigliato dai medici di togliersi per alcun tempo dalla sua corte
e di recarsi a respirare il purissimo aere di Este, culla della sua
prosapia. E ciò si recava in fatti ad effetto nel Gennaio del
1308. In assistenza al Marchese si recava con lui anche Beatrice sua
sorella moglie di Galeazzo Visconti.
Este fatta dimora di tanto ospite veniva a que’ giorni visitata
da molti e molti italiani cospicui, desiderosi di conoscere da vicino
lo stato del Principe, e fra questi sono ricordati l’antico amico
di casa estense Tiso da Camposampiero e molti nobili Padovani. Mercé
gli uffici di tali personaggi si portarono in Este in quell’occasione
i marchesi Aldobrandino e Francesco fratelli di Azzo, dai quali avea
egli ricevuti grandi sconforti siccome ribelli ch’eran stati,
e cagione della perdita dei domini estensi al di qua dell’Adige.
Con esso loro erano Rinaldo ed Obizzo figli di Aldobrandino, e tutti
presso al letto del sofferente, chiesero perdono ed obblìo delle
passate vicende ed offese. Perdonava a tutti il Marchese; ma non andava
guari che dovette cedere al crudo malore che l’affliggeva e che
il trasse ben presto al sepolcro (1° Febbrajo). La mortale sua spoglia
fu deposta con grande solennità nella Chiesa di S. Tecla di Este,
e di qua poi trasferita a Ferrara nella Chiesa di S. Domenico .
Si potrebbe pensare, siccome suole addivenire de’ grandi personaggi
aventi principato, i quali più agevolmente sogliono recarsi ne’
luoghi loro politicamente soggetti, che il marchese Azzo tenesse a quest’epoca
una qualche politica giurisdizione sopra di Este e suo territorio, tanto
più che nessuna convenzione si è mai trovata come dissimo
(pag. 392) la quale abbia spodestato a favore del Comune di Padova la
casa estense de’ suoi aviti dominii. Potrebbe anche conghietturarsi
che una qualche giurisdizione la tenessero i Marchesi fino alla guerra
tra i Padovani e gli Scaligeri cominciata nel 1309, la quale dopo lunghe
e fiere vicende terminava col restar suddite Padova ed Este a quella
potentissima casa di Verona (1327). Per amore poi della storica verità
soggiungerò qui alcuni riflessi che stanno contro alla preannunciata
conghiettura. Fino dal 1295 in un accordo dallo stesso Azzo conchiuso
dai Bolognesi, quantunque si sia conservato il nome di Marchese estense,
non apparisce più quale signore di Este e degli annessi castelli
e villaggi, siccome per lo addietro . E nel 1303 troviamo nel preambolo
allo Statuto di Este sopra l’ordine del diritto che in quell’anno
era podestà in Este pel Comune di Padova Albertino da Bruzene,
e nel 1318 Messer Francesco da Campandola, e nel 1319 Messer Sacheti
da Riverie a nome dello stesso Comune .
Veggo di poi un’autentica investitura riportataci dal Muratori
all’anno 1324 nella quale Lodovico il Bavarese re dei Romani,
confermando a Rinaldo II, Obizzo III e Nicolò figli di Aldobrandino
II marchese estense i beni di loro famiglia, non troviamo più
nominati Este ed i castelli e villaggi del suo territorio al di qua
dell’Adige, ma solamente terre e castelli al di là di quel
fiume, cioè Rovigo con buona parte del Polesine.
Finalmente quanto avvenne dopo la morte di Azzo VIII Signore di Ferrara,
Modena e Reggio c’indica a sufficienza, siccome i diritti giurisdizionali
sopra di Este non ispettassero più ai Marchesi estensi. Azzo
VIII prima di morire lasciava, con testamento scritto in Este, suo universale
erede Folco tuttora bambino e figlio di Fresco prole naturale di Azzo.
Una tale disposizione che andava a spodestare i suoi fratelli Francesco
ed Aldobrandino provo-cava alle armi le parti rivali.
Fresco facendo pel suo figlio Folco erede del principato, godendo della
assistenza delle armi bolognesi, prese possesso di Ferrara in nome del
nuovo signore. D’altra parte il marchese Aldobrandino rimasto
in Este dopo la morte del padre, indispettito per la sua esclusione
dalla signoria di Ferrara, stipulava qui una particolar lega col proprio
fratello Francesco, nella quale ambedue i Marchesi si promisero di godere
ciascuno per sua equa metà quei beni mobili ed immobili loro
lasciati dal padre. Quest’atto veniva eretto in Este nel mese
stesso di Febbrajo del 1308 . In un altro documento dello stesso anno
e mese conchiuso in Padova osservasi il marchese Aldobrandino emancipare
i suoi due figli Rinaldo ed Obizzo assegnando loro dei beni allodiali
in prodigiosa quantità, come dice il Muratori nei territori di
Este, Rovigo, Lendinara, Ferrara ed altrove.
Ma frattanto il marchese Francesco, il quale era più accetto
ai sudditi di sua casa, occupa d’improvviso, con grande allegrezza
di tutti, parte del territorio atestino e in una Rovigo, mentre dava
presso alla Fratta una solenne rotta alle genti di Fresco. Poi mal consigliatosi
ricorreva alla protezione di Papa Clemente V per riavere la Signoria
di Fer-rara, ma il Pontefice credé allora venuta una propizia
occasione affine di avocare alla santa sede quel preteso feudo della
Chiesa.
Fresco però non iscoraggiato, con nuovo esercito di molto ingrossato,
obbligava il suo rivale ad abbandonare le occupate contrade, e a recarsi
in Este, ove viver sicuro sotto le ali della padovana repubblica. Ben
presto tosto il Pontefice spedì a Ravenna Arnaldo da Pelagrua,
affinché assieme a Lamberto da Polenta s’avanzasse all’impresa
di Ferrara.
D’altra parte il marchese Francesco, preso cuore, da Este dipartissi
e favorito, come sembra, da’ soccorsi de Padovani, avvicinavasi
a Rovigo, e tosto entrava nel Castello in una barca coperta, ove fu
ricevuto con acclamazione da quel popolo a lui affezionato. Colla assistenza
de’ Rodigini ne discacciava tosto la guarnigione di Fresco (settembre),
il quale dovette alla fine cedere Ferrara al ministro della Chiesa,
che l’occupava in mezzo alle grida di evviva al marchese Francesco.
Questi aspettava allora di vedersi consegnata la signoria di Ferrara
ma s’ingannava, quantunque l’anno appresso (1309) servisse
valorosamente nell’esercito papale contro de’ Veneziani,
che con potente armata difendevano le ragioni di Fresco, e, dopo la
vittoria definitiva dei papali, stesse alla difesa di Ferrara dai fuorusciti
che continuamente l’assalivano per ogni parte (1310).
Memoria di Aldobrandino troviamo in un mandato che il Muratori discoperse
del 7 Gennajo 1311 fatto dallo stesso Marchese a certo frate Pietro
de’ Carasini, affinché comparisse alla presenza di Enrico
re dei Romani, poi Imperatore (1312), per ottenere da lui solenne investitura
e conferma degli antichi stati della Casa d’Este, nei quali già
sappiamo comprendersi anche Este e suo territorio. Resta ignoto se vi
tenesse dietro il regolare documento. È però certo per
noi che era allora memore Aldobrandino della sua protesta fatta al Comune
di Padova contro le cessioni fatte dai suoi fratelli Azzo e Francesco
nel 1294 (pag. 392), e che stava procurando ogni mezzo per ricuperare,
quando ne venisse propizia l’occasione, le antiche giurisdizioni
atestine.
Poco appresso (18 Febbrajo) i fratelli Marchesi Aldobrandino e Francesco,
mediante l’opra di Onofrio da Trebi cappellano del Papa e di Dalmasio
signor di Bagnolo, vicario allora a nome del Papa e capitan generale
nella città di Ferrara, si fecero nuova e più solenne
divisione mandata ad effetto nell’Agosto successivo dei loro beni
situati nel padovano, estense e montagnanense distretto, oltrecché
nel rodigino, lendinarese e tener di Comacchio, tutti pervenuti dall’eredità
del loro padre Obizzo II marchese estense e signor di Ferrara.
Orribile tradimento frattanto si andava maturando in Ferrara contro
la vita del marchese Francesco. Si temeva dall’iniquo e feroce
Dalmasio non il popolo ferrarese, che già dimostrava apertamente
il suo malcontento, lo acclamasse a proprio Signore.Il marchese dopo
aver militato nell’esercito dei Padovani contro Cane Scaligero,
era ritornato a Ferrara, ove attendeva a tranquilla vita, quando nel
23 Agosto 1312 reduce alla città da una caccia, si vide assalito
dai soldati Catalani satelliti del Dalmasio, e dopo una feroce difesa
sostenuta a punta della sua spada, dové lasciare miseramente
la vita con orrore di tutta Lombardia .
In pari tempo si faceva prigioniero Aldobrandino che però mercé
le preghiere del Comune bolognese veniva pochi giorni appresso liberato.
Per condurre a fine questa triste istoria delle vicende della Casa estense,
fa d’uopo sapere che in seguito a quell’avvenimento, veniva
la città di Ferrara data in vicariato a Roberto re di Puglia
grande campione allora in Italia del partito guelfo, il quale vi mandò
suo governatore e suoi soldati. Ma neppure questo bastò a trattenere
lo sdegno dei ferraresi che non tardò a scoppiare in una sedizione,
nella quale dopo ch’ebbero passati a fil di spada gran parte di
que’ luridi Catalani, e il resto scacciati ed inseguiti per ogni
dove, richiamarono in mezzo a pubbliche allegrezze alla signoria di
Ferrara la Casa estense, cioè i figli di Aldobrandino, Rinaldo
II ed Obizzo III, e il loro cugino Azzo IX figlio del marchese Francesco
(1317).
Aldobrandino, il quale certamente non poteva più essere accetto
agli animi dei Ferra-resi pelle cose occorse (pag.390), si ritirava
a Bologna, dove mediante una somma rinun-ciava ad ogni diritto sopra
Ferrara, e alcuni anni appresso ivi moriva (1326). Gli eredi poi del
marchese Francesco, esclusi in seguito dalla signoria, si recarono a
dimorare a quando a quando in Este, e così noi di quel ramo che
veramente ci appartiene e che si estinse col marchese Bertoldo nel 1463,
dovremo parlarne nel Periodo quarto di questa storia.
Le percorse vicende della Casa estense al principio del secolo XIV,
cui spetta ad altri più distesamente narrare, a punto di vista
ci ammaestrano, siccome la Casa marchionale estense non teneva più
il politico reggimento in queste contrade, che nel fatto si esercitava
dal Comune di Padova, il quale teneva in Este un presidio ed un suo
Podestà, colpa le antiche dissessioni sovvenute tra i fratelli
Marchesi (pag. 392).
Or tirando innanzi nell’incominciato cammino, mentre (1311) fortissima
dominava la padovana repubblica e grande estimazione godeva in Italia
e fuori, calava in Italia Enrico VII re dei Romani per comprimere, secondo
il solito costume, i movimenti italiani diretti ad allargare le civili
libertà. Ma Padova tutta guelfa com’era, insorgeva ribelle
all’impero, e prese le armi, entrava in aspra guerra contro Cane
Scaligero signor di Verona, capo dei ghibellini e amico al Tedesco.
Andata a male ai Padovani quell’impresa, Vicenza si sottraeva
tosto alla sua rivale (15 Aprile) e fu questo primo segno della decadenza
della padovana dominazione, la quale dopo inutili sforzi per ricuperarsi
la vicina nemica, fu costretta mandar suoi deputati e sommettersi all’Imperatore.
Ma ben presto ribellatisi i Padovani, si riaccese più feroce
la guerra, durante la quale venne a scoprirsi un traditore della patria
nel Conte Nicolò signore di Lozzo, castello posto nel territorio
atestino, e le cui vicende appartengono a questa storia. Quel villaggio
sino dall’anno 983 lo si trova infeudato dall’Imperatore
Ottone II ad Ingelfredo de’ Maltraversi, nobilissima famiglia
di Padova. Venne poscia ridotto a fortezza munita di muro e di fossa
da Alberico Branca de’ predetti Maltraversi, capitano della cavalleria
padovana. Quindi quel ramo de’ Conti si disse poi da Lozzo, castello
da essi tenuto a salvaguardia della loro potenza .
Gli Anziani della repubblica, avuto appena sentore del tradimento di
Nicolò, si appigliarono al peggior partito, e fu di richiamarlo
in patria, mentre egli spediva i suoi secreti messi a Cane fatto suo
amico, e questi occupava tosto il castello di Lozzo (22 Dicembre 1312).
Furibondo allora il popolo padovano dopo aver solennemente dichiarato
Nicolò traditor della patria, impugnate tosto le armi, uscì
dalla città e recossi ad Este, donde poi s’avviava a Lozzo;
e già s’erano gli armigeri padovani appressati al castello
e vedeansi attorno i villaggi incendiati e udiansi le grida dei villici
costernati, quando scoppiata nel cielo una violenta bufera, sono astretti
gli assalitori s desistere dall’attacco e a ripiegare verso di
Este dopo aver lasciate traccie funeste del loro passaggio. Poco dopo
la rocca di Lozzo veniva atterrata e incendiata per ordine di Cane,
o come altri vogliono, del Conte Nicolò, che già disperava
di poterla più difendere dalla furia inesorabile dei Padovani
.
In quest’anno sappiamo che era governatore e podestà in
Este a nome del Comune di Padova Antonio da Curtarolo di nobile famiglia
padovana.
Non cessando la guerra, tosto si dié mano dai Padovani a maggiormente
fortificare Este e Monselice, siccome antiguardi da opporsi alla irruzione
degli Scaligeri dalla parte di Verona. Ci è raccontato che lo
stesso Podestà di Padova Bornio de’ Samaritani, lavorava
colla zappa sulle fosse e sulle mura di Este. E qui comincia nuova e
lunga serie di sventure per la terra estense, che dovea esser campo
e ambìta preda dei belligeranti Padovani soccorsi da que’
di Cremona, di Treviso e dai Marchesi estensi , tutti guelfi contro
gli Scaligeri col Conte di Gorizia di fazione ghibellina. Benché
l’Imperatore Enrico VII fosse già trapassato da questa
vita (24 Agosto 1313) la guerra non posava, e lungo sarebbe e assai
difficile il racconto delle piccole fazioni guerriate allora sul nostro
territorio. Molto soffersero allora li nostri villaggi tanto pedemontani
che al piano, ed anzi a quest’epoca spetta la quasi totale distruzione
delle piccole fortezze e rocche sparse sul nostro suolo. Come maggiormente
colpiti e angariati e mandati a sangue e a fuoco ci sono indicati dai
cronisti con troppa forse esagerazione, Cinto Lozzo, Valbona, Faedo,
Ospedaletto, Vighizzolo e Ponso .
Nell’anno seguente (Settembre) erano i Padovani pervenuti in assenza
di Cane ad impadronirsi di un borgo di Vicenza, ove fecero anche strage
e bottino. Ma avvertitone a tempo, vi corse sopra il veronese signore,
il quale sorprese i nemici mentre sicuri si erano dati al piacere, fe’
loro prendere una disordinata fuga. Chi verso Cittadella, chi verso
Bassano prese la via, ed altri molti de’ fuggitivi capitarono
in Este. Finalmente, dopo tre anni di stragi, di rovine e di combattimento
senza riuscita, si veniva ad un componimento provocato solamente dalla
stanchezza dell’armi. Patto principale si fu che le parti guerreggianti
si ritenessero que’ luoghi e castelli che a quel punto occupavano
nella Marca (4 Ottobre 1314) .
Ma questa fatal guerra si ripigliava tre anni appresso, suscitata specialmente
dai Padovani, che non potevano acquietarsi alla perdita di Vicenza,
la quale d’improvviso assalirono, ma sopraggiunto Cane, ne ebbero
grave disfatta. Profittava tosto questi della vittoria, e s’affrettava
ad occupare il castello di Monselice consegnatogli per viltà
del podestà Buzzaccarino, che ne aveva il comando. Quindi senza
indugio lo Scaligero con grande traino di macchine si presentava sotto
le mura di Este intimando la resa.
Stava allora alla difesa del nostro castello Antonio Contarini di famiglia
padovana, fedelissimo alla patria, il quale, chiamati all’armi
gli Estensi tutti capaci di combattere, rispondeva a quell’intimazione
con un nembo di saette e di sassi, talché ne rimase ferito in
un piede lo stesso Cane, ed altra ferita riceveva il suo nipote Cecchino.
Allora si venne dalla gente scaligera ad un generale assalto; l’oste
veronese combatté ferocemente per tutto un giorno, ma non meno
valorosi gli assediati la respingevano senza tregua.
Non era avvezzo lo Scaligero a trovare tanta resistenza, secondato com’era
sempre dal suo valore e dalla sua fortuna; perciò il giorno appresso
rianimando il coraggio de’ suoi, ne rinnovò con sì
gran furia l’assalto che, superato ogni ostacolo e montate le
mura, colle pietre e coi dardi ne discacciava i valorosi difensori già
ridotti a poco numero e rifiniti di forze. Guadagnata ch’ebbero
i nemici la sommità delle mura, invasero tutto il castello, appiccando
il fuoco in più parti, mentre lo Scaligero ordinava che ne fossero
riversate al suolo le mura. Tosto faceva ritorno a Monselice per curarsi
della ricevuta ferita . Dall’epoca eceliniana Este non avea maggiormente
sofferto, tanto più sfortunata in tale occasione, in cui non
più combatteva e spargeva il sangue de’ suoi figli per
la causa dei suoi Marchesi.
Così prosperi successi allettarono lo Scaligero a prepararsi
oramai al conquisto della stessa padovana capitale; e frattanto mandava
bande armate a Monselice, donde poi si spargevano a depredare le vicine
terre e i villaggi, non restandone come al solito esenti gli atestini.
A que’ giorni Padova trovatasi agitata oltreché per le
esterne disavventure anche per le interne discordie, e già Cane
stava minaccioso alle sue porte, quando interpostisi i legati della
repubblica veneta si venne ad un accordo, col quale si cedeva a Cane
per tutta la sua vita la custodia armata oltreché di Monselice,
Castelbaldo e Montagnana, della Torre pur anco posta a un miglio da
Este, situata in forte posizione, sovrastante come era alla strada che
conduceva a Montagnana e Verona , e che tuttora quasi intatta si vede
(Febbrajo 1318). Di tutte queste terre però ne era conservata
la giurisdizione al Comune di Padova .
Dopo una sì lunga guerra, la quale avea travolto fortune e cose
nel padovano e atestino territorio, ribolliva ben presto pertinacemente
lo spirito di fazione fra i padovani cittadini. Allora venne scôrta
da ognuno la necessità di affidare la somma della repubblica
ad un solo cittadino col nome di capitan generale. Cadde la scelta sopra
Jacopo da Carrara, nome illustre e possente nell’armi, e destro
nel governare uomini e cose. Ne fu fatta la solenne acclamazione fra
pubbliche allegrezze il giorno 24 di Luglio, e nel decreto costituente
la signoria del Carrarese, i Padovani tra gli altri diritti gli concessero
ancor quello di nominare da sé il Podestà della città
non solo, ma ancora i reggitori delle terre soggette, cioè a
dire di Este, Montagnana, Monselice ed altri luoghi .
Salutare disposizione del nuovo dominio fu l’essersi per voler
del carrarese Signore, coll’opra di sei personaggi atestini esperti
nelle cose patrie, ridotte a corpo le speciali norme che regolavano
la nostra comunità (Dicembre 1318). Ne fu fatta la pubblicazione
nell’anno appresso, come puossi verificare nel Preambolo allo
Statuto stesso, del quale più avanti avremo a intrattenersi più
particolarmente. Ci basti ora sapere che nel pubblico archivio della
nostra Comunità possediamo l’originale libro degli statuti
scritto appunto in quest’anno, siccome ci è apertamente
indicato nel primo articolo che tratta del giuramento del Podestà
e che comincia: << Ad onore di Dio onnipotente e della B. Vergine
Maria e dei <<SS. Apostoli e dei BB. Prosdocimo ed Antonio confessori,
e in onore del buono stato <<della città di Padova, corporazioni,
cittadinanza e popolo padovano e della Terra di <<Este, e ad onore
infine ed esaltazione del magnifico Signore Jacopo da Carrara, <<capitano
generale della Città di Padova >>.
Triste però dovea essere a questo tempo la condizione di Este
posta fra due fuochi, colla guarnigione carrarese entro al castello,
e le genti dello Scaligero stazionate quasi alle sue porte. Quella pace
così imperfettamente stabilita lasciava campo a nuove fazioni,
siccome ben presto dové accadere. L’anno appresso (1319)
Cane faceva lega coi Marchesi estensi e coi fuorusciti padovani, e traversando
il nostro territorio stava di nuovo co’ suoi sotto alle mura di
Padova, e questo improvviso movimento agevolava ai Marchesi il ricuperarsi
Rovigo, la Badia e Lendinara, a sé così traendo tutto
il Polesine. Allora fu che Jacopo da Carrara patteggiò con Enrico
Conte di Gorizia inviato di Federico di Austria, al quale tutta la città
dedicossi fino a fargli consegna del gonfalone.
Fatta appena una tregua per mediazione di Federico, lo Scaligero tornava
alle ostilità (1320) e stringeva Padova di nuovo assedio. Ma
toccata che ebbe Cane a Piove di Sacco una sconfitta, pur una volta
dové piegare la sua alterigia coll’assentire a nuova pace,
nella quale fu patteggiato che Este, Monselice, Montagnana e Castelbaldo
dovessero rimanere tutt’affatto in possesso della Scaligero Signore,
fino a che Federico d’Austria protettore di Padova giudicasse
delle reciproche differenze .
Ecco Este cangiar di padrone dopo solamente due anni, dacché
ubbidiva al Carrarese, ed anzi servire di ostaggio alle ragioni del
Signor di Verona, il quale ormai sopra ogni suo rivale si era elevato
nella Marca trivigiana e nella Lombardia. Ma la sventura più
grande pegli Estensi si era di vedere corseggiato il loro territorio
da gente, che amica o nemica fosse, terminate le battaglie, depredava
e rapiva ogni cosa. Nello stesso anno orribili scene accaddero in Este
per colpa dei fuorusciti padovani e degli alleati Tedeschi e Scaligeri,
ché tutti arrecavano malanno e disperazione. Le cose occorse
ci sono narrate assai confusamente dai Cortusii . Fatto è che
gli Estensi già sempre guelfi, sentendo che i Padovani venivano
con buona mano di gente inverso di Este, ribellaronsi tosto a Cane,
ed uccisero Lorenzo di Terrarsa capitano del castello. Allora fu che
impadronitisene i fuorusciti padovani di parte ghibellina, vi commisero
ogni sorta di crudeltà, per cui molti atestini dovetter abbandonare
la patria, e questa terra venne allora in gran parte distrutta. E tutto
ciò accadeva nel mese di settembre. A me sembra però che
la pretesa distruzione di Este in quell’occasione, sia una delle
consuete esagerazioni dei cronisti.
Nell’anno susseguente (1322) altro uomo comparve sulla scena per
recar danno a questa terra. Messer Corrado da Vigonza fattosi ribelle
al Comune di Padova stava a capo dei fuorusciti Padovani e in accordo
colli Scaligeri e coi Marchesi estensi, che di lui voleano servirsi
per ritornare alla signoria dell’estense loro dominio. Corrado
dopo aver depredato Este e sue vicinanze nella forma la più brutale,
si ritrasse a Vighizzolo ivi fortificandosi con fosse e betifredi (Febbrajo).
I Padovani volendo frenare i ribelli manda-rono ad Este soldati che
agli estensi però benché protetti costavano d’assai.
L’anno appresso (1323) rinnovaronsi gli stessi flagelli, fino
a che dovette il Comune di Padova permettere ad alcuni fuorusciti di
quella fazione di ritornare in patria, e a Corrado ed eredi suoi mantenere
che in perpetuo starebbe egli possessore di Vighizzolo ed annesse giurisdizioni.
Anche questo ci è narrato dai Cortusii .
Così di tregua in tregua tra Padovani e lo Scaligero, né
cessando però le correrie dei fuorusciti al depredamento della
campagna, trapassarono alcuni anni, i cui avvenimenti non ci appartengono,
sino al tempo in cui calava in Italia Lodovico il Bavarese re de’
Romani (1327). Questi allo scopo di deprimere la potenza dei guelfi
accendeva nuova guerra nella Marca. Eransi uniti allo Scaligero molti
fuorusciti padovani condotti da Nicolò da Carrara ribelle allo
zio Marsilio capitano generale e signore di Padova. Queglino si affortificarono
in Este, donde si recavano a stormi a sommettere il paese al di qua
del Brenta. Ma giunti soccorsi a Marsilio, faceva egli impeto sopra
di Este, ne fugava i nemici e lo stesso Scaligero che riparava a Verona.
Ma poco fruttava al Carrarese quell’impresa ché la gente
scaligera stringeva da ogni parte, mentre andava a soqquadro la cittade.
Dovè finalmente cedersi alle circostanze, e in pieno consiglio
del Comune di Padova si passava a maggioranza che la città e
tutta la repubblica dovesse sottomettersi al veronese Signore. Pegno
di questa disastrosa pace fu Taddea figlia di Jacopo da Carrara che
passava in isposa a Mastino della Scala nipote di Cane (1328). Così
avea fine una guerra che da ben 17 anni avea cagionato guasti e rovine
in tutta la Marca, e dalla quale quest’Este ebbe a soffrire tante
devastazioni e la demolizione delle antiche sue mura. Lo Scaligero eleggeva
a suo vicario in Padova lo stesso Marsilio, e così quella potente
Casa
sorta dal nulla teneva già in sua signoria Verona, Vicenza, Padova,
Este, Treviso, Feltre e Cividale del Friuli, com’ebbe più
tardi in sua balìa Belluno, Ceneda, Conegliano, Bassano, Brescia,
Parma, Lucca e Novara.
CAPO VI
GOVERNO DEGLI SCALIGERI.
ESTE SOFFRE NUOVE ROVINE, QUINDI RITORNA AI CARRARESI, CHE NE RIEDIFICANO
LE MURA.
NOVELLO DA CARRARA FUGGITIVO DIMORA IN ESTE, LA QUALE PASSA AI VISCONTI,
QUINDI PER POCO ALLA CASA ESTENSE.
RITORNA AI CARRARESI, QUINDI GLI ESTENSI SI DEDICANO ALLA REPUBBLICA
DI VENEZIA.
1328 - 1405
Mastino della Scala succeduto
a cane morto nel 1329, erasi innalzato al più alto grado di potenza
e già aspirava nient’altro che a una corona lombarda. Ma
accecato quel Principe dalla troppo crescente prosperità, divenne
crudele verso i soggetti, e da ogni dove si andava accumulando i nemici.
Poco o nulla ci restò di memorie del breve periodo scaligero
di quanto ci possa riguardare; e così doveva avvenire laddove
il nuovo Principe d’altro non si curava che di stremare d’uomini
e di denaro le soggette terre per sostenere le guerre incessanti, ch’ei
stesso avea provocate, e comprimere i moti ribelli delle cittade e castella
stanche del lungo soffrire.
Solamente diremo che tutto ci fa credere aver avuto la Casa scaligera
un proprio palazzo in Este. L’arme degli Scaligeri ci si dimostra
anche in oggi in due grossi architravi sovrastanti al pubblico porticato
di una antica fabbrica situata alla parte di borea della nostra piazza
maggiore . Sonvi là in pittura le traccie appunto della Scala,
da cui quella Casa ebbe il suo nome.
Ma ben presto doveva Este subire altre sventure. Avevano i Padovani
mosso gravi lagnanze a Mastino sul pessimo diportamento de’ suoi
soldati di presidio, ch’erano mer-cenarii Tedeschi. Mastino dato
ascolto a que’ reclami, ordinava che ad Este dovesse passare quella
calamità. Si noveravano ben 1500 soldati; e ci è narrato
dai cronisti che la circostante campagna ebbe molto a dolersi della
visita di quegli ospiti inopportuni (1336), i quali finirono l’anno
appresso col passare in gran parte nelle schiere nemiche .
La potenza però e le ricchezze degli Scaligeri recavano ombra
agli altri principati e repubbliche italiane; ed una lega andava a formarsi
avente a capo i Veneziani e Fiorentini, non senza cooperarvi i Carraresi.
Sorse allora una guerra accanita, (1337) nella quale, per quanto a noi
spetta di sapere, rileviamo dai Cortusii che Este teneva ancora una
guarni-gione di Tedeschi. Correva il Luglio, e non avendo potuto Mastino
trarre a decisiva battaglia Pietro de’ Rossi generale della lega
dovette sciogliere il suo esercito ripartendolo a Treviso, Bassano,
Este ed altre castella del suo dominio. Per tutte queste incursioni,
Este stava per ridursi alla sua estrema rovina, se nuove ed insperate
cose non sopraggiungeano a consolazione di queste contrade. Marsilio
da Carrara profittando della fiacchezza di Alberto Scaligero fratello
a Mastino posto al governo di Padova, in una sola notte impadronivasi
di lui e de’ suoi armigeri coll’ajuto di Pietro de’
Rossi (3 Agosto). Volonterose se gli arrendevano, fuggiti i presidii,
Este e Montagnana. Quindi tosto si corse ad attaccare Monselice. Morto
in quell’ora Marsilio, e succedutogli Ubertino, si continuò
con maggior furore l’assedio, e passò ben un anno prima
che quel fortissimo castello si arrendesse (1338). Restando ancora inoppugnata
la rocca difesa da Fiorello de Luca, Ubertino l’ebbe per tradimento
da un certo Galmarello. Finalmente Mastino dové piegarsi alla
pace, la quale venne conclusa coll’intervento dei Veneziani (1339
24 Gennajo); e sua principal condizione si era che Ubertino si ritenesse
i paesi da lui riconquistati. Ritornava così la casa de’
Carraresi nella signoria di Padova, Monselice, Este e Montagnana. Ma
atterrate e rovinate erano le mura e le torri del castello estense dopo
quel fiero assedio sostenuto contro le armi scaligere (pag. 409). Ubertino,
che pensava tosto al rassodamento del suo potere, ordinava che fossero
rialzate le mura del castello e munita di alte torri la rocca, come
in oggi vediamo; bel monumento di quel secolo guerriero. Una iscrizione
in lode del principe venne infissa sulla porta della rocca ad eterna
ricordanza della grandezza dei Carraresi, la quale così suonerebbe
nella nostra lingua:
<< Nell’anno dell’Incarnazione del figlio della Vergine
mille trecento trentanove, <<Ubertino da Carrara folgoreggiante
su cocchio dorato, illustre signore di Padova, fe’ <<innalzare
queste mura, affinché la padovana repubblica sicura e tranquilla
potesse <<riposare, e cessare una volta il nemico furore. Concedi,
o Iddio, lunga e felice vita a tale <<Signore, il quale poté
annodare la patria e le sue lacerate membra >>.
Fu Ubertino assai tenero della sicurezza del suo Stato non solo, ma
dedicossi tutto quanto a procurare, oltreché alla città
anche al territorio i possibili avanzamenti. Dopo aver egli rifatte
le nostre mura, lo troviamo nel 1344 far condurre un canale da Este
a Montagnana, che dovea essere assai vantaggioso al commercio, ma che
fu poi dai suoi successori abbandonato pei molti disagi di navigazione,
che seco portava .
Moriva quel valoroso principe nel 29 Marzo del 1345, e fu ben <<
meritevole di <<appartenere al secolo di Dante; avverso all’inerzia
e all’ignoranza, vedeva e sentiva il <<bisogno così
negli uomini come nelle cose di progredire nel cominciato civile <<rivolgimento
(Cittadella) >>.
Nulla ci apprestano le cronache per qualche tempo, che porti materia
a questa storia. Solo perché il castello di Lozzo, di cui sopra
dicemmo (pag.405) venne tolto per sempre agli antichi suoi Signori,
è d’uopo qui brevemente toccare di quel funesto avvenimento.
Era ad Ubertino succeduto Marsilietto da Carrara, e a questo, dopo solo
40 giorni di principato, il suo uccisore Jacopo II. Ma al rovesciamento
di tutti i Carraresi facevano congiura i tre fratelli Enrico, Nicolò
e Francesco Conti di Lozzo. Discoperti e convinti del tradimento, Enrico
e Francesco vennero messi a morte, e banditi per sempre i loro figli.
Nicolò che si trovava al di fuori, riparava in fretta al suo
castello di Lozzo, ma ben presto ne dovea fuggire inseguito dalle armi
del Carrarese. Allora quella rocca e tutte le terre dei Conti di Lozzo
vennero ascritte alla propria giurisdizione del principe Jacopo II (1345)
.
Dalla carestia, da’ terremoti e specialmente dalla famosa peste
del 1348 non poté al certo andare immune l’estense contrada,
laddove ci è narrato dai Cortusii che a Padova dei tre cittadini
ne perivano due, e che ne andarono desolate e contristate le sue campagne,
talché dovette il Comune di Padova invitare lavoratori dal territorio
con promessa d’immunità da ogni gravezza per cinque anni.
Ora di piè pari trasportandoci all’anno 1354, è
d’uopo sapere che erano stati fin qui mal definiti i reciproci
diritti e giurisdizioni tra il Comune di Padova e i Marchesi estensi
Signori di Ferrara. Avvenne soprattutto in quest’anno che Aldobrandino
III cedeva, mediante interposizione del doge Andrea Dandolo, a Jacopino
e Francesco da Carrara, successi (1350) a Jacopo II nella signoria di
Padova, il forte di Vighizzolo, cui già vedemmo essere stato
appreso da Corrado da Vigonza in accordo ai Marchesi estensi (pag. 413).
I Carraresi in cambio rinunciarono a’ propri diritti sopra Rovigo
e terre del Polesine a perpetuo favore della Casa Estense . Da tal fatto
è chiaro, siccome i Marchesi teneano ancora diritti e possedimenti
in queste parti atestine, cui a poco a poco cedevano per concentrarsi
più forti e sicuri di là dell’Adige vero la loro
signoria ferrarese.
Ma né per questo dimenticavano le antiche loro ragioni sul feudo
estense, cui non intendevano di aver mai rinunciato ai Padovani. venuto
nell’anno stesso in Italia l’Imperatore Carlo IV, accolto
ch’ebbe con tutto il riguardo il Marchese Aldobrandino a Padova,
gli rilasciava poi da Mantova due diplomi, (16 Novembre), coi quali,
richiamate integralmente le due antiche investiture del 1077 e del 1221
(pag. 243, 344), confermava gli antichi diritti feudali sopra Este ed
annesse terre e villaggi . Dal che è d’uopo concludere
che l’antica giurisdizione estense confermata ad Alberto Azzo
II fino dal 1077, tuttora sussisteva in diritto, né mai era stata
con atto o trattato alcuno ceduta al governo di Padova. Non mi si potrà
accagionare, io spero, di millanteria, ove parlano i fatti.
Stringeasi frattanto una forte lega eccitata dai Veneziani contro i
potentissimi Visconti signori di Milano; e sappiamo che nel Giugno (1354)
i capi de’ confederati, Faentini, Reggiani, Padovani si unirono
a Montagnana, ove nominarono a capitano della unione Francesco da Carrara
nipote di Jacopino Signore di Padova. Nella quale alleanza i Marchesi
estensi stavano in accordo coi Visconti, ma l’imperatore Carlo
IV venne a capo l’anno seguente (1355) di poter combinare una
tregua fra le parti già pronte alle offese.
Successo nel principato il solo Francesco da Carrara (1360), ne nacque
ben presto grave inimicizia tra lui e i Veneziani, i quali avevano in
uggia la crescente potenza del padovano Signore, che avvedutosi già
non poter evitarsi la guerra, si mise a tutta possa a fortificarsi nel
suo stato; e fu in siffatta occasione che egli di mura più solide
e robuste accerchiava Montagnana, lavoro condotto a termine in soli
26 mesi.
Ora lasciati indietro ben ventott’anni, nei quali la guerra fu
quasi permanente nella Marca, e specialmente tra i Carraresi e i Veneziani,
a disteso ed elegantemente descritta dal Conte Giovanni Cittadella ,
onore della nobiltà patavina, noi dobbiamo riportarci colla nostra
storia alla breve epoca viscontea, che arrecò a noi Estensi un
affatto improvviso mangiamento di signoria, e che ci richiama alle cose
dei passati secoli, ossia alla marchionale dominazione in queste contrade.
Francesco Novello da Carrara (1388) era malvoluto dai Padovani, molti
dei quali amanti di novità parteggiavano pei Visconti di Milano.
Questi oramai, siccome altra volta gli Ecelini, e più tardi gli
Scaligeri, aspiravano a grande potere in Italia. Francesco vistosi appresso
ad essere tradito da’ suoi già malcontenti delle passate
sue angarie, fugge a Monselice co’ figli e colla sposa, ch’era
la celebre Taddea figlia di Nicolò marchese d’Este.
Il Novello trovava assai triste accoglienza tra il popolo monselicense,
colpa speciale di Francesco suo padre, il quale aveva sciupato questi
paesi di uomini e di denari, involto sempre in guerre incessanti e desolatrici.
Non dissimile sarebbe stato il suo accoglimento in Este, dove si recava
ben presto il Principe colla famiglia, se gli estensi non fosser stati
tenuti in freno da una buona mano di militi, che a sua difesa lo circondavano.In
Este si tratteneva alcun poco colla desolatissima moglie co’ figli;
da quivi poi si avviava a Verona tenendo la via di Montagnana, mentre
la sua sposa co’ figli prendeva la strada di Vighizzolo, e ciò
per tenersi il più possibilmente nascosti. Fu onorato il Carrarese
a Montagnana sulle prime; all’uscirne però gli toccò
udire gli evviva che si innalzavano al Visconti; e frattanto ne avvenne
l’uccisione del Podestà che a quelle dimostrazioni si opponeva.
Di Este e di Montagnana prese allora possesso a nome del nuovo Signore
il Conte del Verme, dopoché a Milano veniva fatta solenne dedizione
di Padova a Galeazzo Visconti. Questi per nulla sollecito di cattivarsi
i cuori de’ nuovi soggetti, spedì sulle terre e castelli
del padovano suoi uffiziali, i quali ingiustizie e tirannie a tutt’oltranza
presero ad esercitare. Il pentimento allora sopravveniva agli Estensi
di aver desiderato un nuovo Signore, che più triste del primo
si appalesava .
Este però, che va lieta una volta ancora di riprendere una storia
sua propria, era confortata di ritornare sotto il mite governo de’
suoi Marchesi, i quali non trascuravano alcuna opportunità per
mettere innanzi le proprie antichissime ragioni, non mai rinunciate
ad alcuno, sopra quella Terra, che fu culla della loro gloria e del
loro valore. Era propria-mente la ricordanza che i Marchesi portavano
impressa della loro origine estense, che li traeva sì spesso
a ritentare il ricupero di questi luoghi sì cari alla loro memoria.
Alberto d’Este succeduto a Nicolò (1388) aveva fatto lega
coi Visconti, adescato appunto dalla lusinga di profittare della caduta
dei Carraresi per ricuperarsi l’antico dominio estense. Occupata
Padova e suo territorio dai Visconti (29 Novembre 1388) il Signore milanese
andava ritardando, come sembra, la pattuita consegna di Este. Finalmente
si venne a quella cessione, non però liberamente, ma sotto vincolo
di feudo in onore del Visconti e suoi successori; nel che va osservato
che il Visconti si metteva in luogo degl’imperatori, che più
volte in simil guisa avevano investito i Marchesi estensi. Concedevasi
quindi ad Alberto marchese in feudo nobile perpetuo, in linea mascolina.
Este col suo territorio, villaggi, terre, uomini e distretto col mero
e misto impero, diritto di spada e piena giurisdizione, salvo sempre
il diritto di omaggio e di fedeltà al concedente Visconti. Si
dichiara che ad Este va unito da una parte il territorio di Monselice,
e dall’altra parte quello di Bavone, e d’altro canto ancora
Vighizzolo colle sue valli. Siccome poi vedemmo poco addietro (pag.
421) che il castello di Vighizzolo era stato dai Marchesi estensi ceduto
in cambio al Carrarese Signore, così sta espresso che non trovasi
compreso in questa feudale tradizione né Vighizzolo né
alcuna giurisdizione sulla stessa terra. Potendo mancare in avvenire
successione mascolina al marchese Alberto, o a’ suoi figli, Este
col suo castello, rocca e territorio dovrà tornare liberamente
e in pieno domino dell’illustrissimo Principe Gian Galeazzo Visconti
Conte di Virtù, o a’ suoi discendenti d’ambo i sessi.
Succedendo tal caso, si dichiarano gli uomini estensi già per
allora liberati di qualunque vincolo di fedeltà e giuramento
verso il Marchese e suoi discendenti. Il lombardo signore riserva ancora
a sé e successori il diritto di conferma del capitano nel nostro
castello, il quale farà giuramento di fedeltà in mano
di chi sarà dal Visconti e discendenti delegato, affinché,
cessata appena la linea mascolina nei principi estensi, abbia tosto
a farne consegna alla casa viscontea. Rimane poi vietato ai Marchesi
d’imporre nuove gabelle sulle persone o cose transitanti per Este
e territorio.Ci è noto in pari tempo da questo pregevole documento
che a quell’epoca aveva Este una qualche importanza commerciale,
laddove vietasi ai Marchesi d’imporre alcuna gravezza ai cittadini
di Padova e abitatori del padovano distretto, allorché si recano
in Este per negoziare, e così è ritenuto lecito a tutti
i sudditi de’ Visconti di estrarre dal territorio atestino generi
e cose di qualunque sorta senza alcuna restrizione o imposizione. Il
marchese Alberto finalmente viene investito della Signoria estense coll’anello,
colla spada e col bacio dei Visconti a perpetua conferma della feudale
tradizione (30 Agosto 1389) .
Tanto ci risulta dal precitato documento che ottenne il suo pieno effetto
nel dì 17 del successivo Ottobre, in cui il marchese Alberto
<< si portò in persona con riguardevole accompagnamento
a prendere il possesso della terra di Este con gioja inesplicabile di
quel popolo in riacquistare gli antichissimi loro Signori, i quali sempre
aveano seguitato col titolo di Marchesi d’Este a rendere famosa
quella contrada >> (Muratori).
Ma perdurava ancora in Italia quel secolo descrittoci dall’altissimo
Dante, laddove rivolto alla sua Firenze ne la rimbotta
…….. ch’a mezzo novembre
Non giunge quel che tu d’ottobre fili >>.
E tal avvenne a questa patria pochi mesi dopo che i Marchesi ne avean
ricovrato l’ambito dominio.
Francesco Novello da Carrara dopo lunghi viaggi e traversie divise con
Taddea, donna d’animo invitto, avuti soccorsi dai Fiorentini e
dai Bolognesi, sorretto dai Veneziani, che male sopportavano sì
vicina la prepotenza del milanese signore, entrò improvvisamente
in Padova, dove assediati i Visconti già ritrattisi nel castello,
venne ripristinata la signoria Carrarese (Giugno 1390).
Francesco si diede tosto a togliere ai Visconti i suoi alleati, ed unitosi
a gente bavarese mosse ai danni dei Marchesi estensi, e per sorpresa
s’impadroniva di Badia, di Lendinara, e si accampava sotto Rovigo
mettendo sossopra tutto il Polesine che ai Signori di Ferrara apparteneva
(Settembre). Il marchese Alberto era mal soddisfatto del Visconti, anzi
contro di lui incitava il duca di Baviera ch’era calato in Italia
con forte esercito in favore del Carrarese. Questi rinunziava alla lega
del milanese Signore e un’altra ne concludeva (Novembre) coi di
lui nemici. Il Signor di Padova gli restituiva tutto quanto avea occupato
dipendente dall’Estense, e così il Marchese dové
al più presto ritirare il suo presidio da Este. In tal guisa
la nostra città dopo appena un anno era ritolta ai Marchesi e
ritornava al governo Carrarese. Non sarà però questa la
ultima volta che la Casa Estense, mettendo a suo profitto gli avvenimenti
e non risparmiando le armi, rioccupasse questa antica sua terra, segno
evidente della particolare affezione che le portava. Più innanzi
di questa storia (1509) vedremo quella Casa rimettersi per qualche tempo
ancora in possesso di Este e suo territorio, richiamandolo le antiche
ragioni.
Ora a compiere questo terzo Periodo non ci resta che riportarci a quel
tempo, in cui gli Estensi eran già lassi dal provvedere d’uomini
e di denaro alla lunghissima guerra dai Carraresi sostenuta contro la
veneta Repubblica, la quale vi s’era impegnata con tutte le sue
forze.
Già le cose eran venute a tal segno che Padova si trovava stretta
d’assedio dai Veneziani, i quali fatti già ambiziosi di
voler estendere il loro dominio in terra ferma, avean risoluto di annientare
per sempre la troppo vicina potenza della Carrarese famiglia (1405).
Gli Atestini che in una sola generazione avean ben sei fiate cangiato
di padrone e sofferto di grandi sventure, presero un grande e pronto
divisamento, affine di evitare gli orrori di un assedio che imminente
loro soprastava, il cui esito non poteva rimaner più dubbioso.
Solenne dovette essere quel giorno per questa patria, e fu in settembre
dell’anno 1405, allorché protraendosi furiosamente l’assedio
di Padova, venne intimata generale adunan-za dei cittadini estensi per
decidere della sorte di questo popolo. Gravi e calde, com’era
ad immaginarsi, furon le dispute nel pieno consesso dei comunali rappresentanti,
e molteplici partiti furono proposti in tanta urgenza di cose. In mezzo
alle discordanti opinioni e al tener fermo di Ceco da Pisa podestà
Carrarese per resistere ai Veneziani, gli animi si esaltaro-no, e già
erano prevalsi in numero quelli che a Venezia proposero doversi tosto
aderire spontaneamente senza aspettare il costringimento dell’armi.
Il Podestà mettendo innanzi il proprio potere intimava che nessun
contrario partito si prendesse, ma piuttosto s’avvi-sasse ai mezzi
per sostenere e difendere l’estense castello a favore del Signor
carrarese.
A tale proposta crebbero le grida dei consiglieri e del popolo irrompente
contro Ceco, il quale noi accagionar non dobbiamo che di troppa fedeltà
al suo Signore. Investito quel misero dalla folla e risospinto verso
una finestra della sala del Consiglio, veniva da un certo Biagio Lombardo
precipitato sulla piazza, dove trovava una subita morte. Lungi da me
ogni scusa di simil fatto che fu conseguenza di furor popolare, il quale
il più delle volte trascende nel dilirio e nel sangue .
Gli Estensi allora non perdettero un fiato, e di tosto elessero alcuni
fra’ principali del consiglio, i quali si recassero a Venezia
per fare atto di volontaria sottomissione a quella illustre repubblica,
ed in pari tempo profittare della propria occasione per accaparrarsi
buone condizioni di vassallaggio. Furono gli inviati Giovanni da Cartura,
Ottonello di Marco e Bartolomeo Rizzardi.
Il veneto Senato mostrassi benissimo disposto in favore di questa terra,
tanto più che aveva tutto l’interesse a quel momento di
fare conoscere agli altri paesi di terra ferma, quanto vi guadagnerebbero
i loro popoli coll’imitar l’esempio degli Estensi e così
accelerare la caduta di Padova .
Ottemperando alle giuste inchieste dei legati atestini, il Doge Michel
Steno rilasciava nel dì 16 Settembre ai presenti e futuri abitatori
di Este solenne Carta di privilegio, cui ci sentiamo obbligati di arrecare
nel suo pieno tenore, avendo essa servito quasi per 4 secoli (1405-1797)
di norma e legge nei pubblici affari della comunità atestina
:
<< Noi Michel Steno per la Dio Grazia Doge di Venezia facciamo
manifesto a tutti, che <<vedranno il nostro Privilegio, che desiderando
Noi di far sempre rispettare e render glo-<<riosa la ducale dignità
del nostro trono, quando ci addimostriamo benevoli verso i <<soggetti,
e prestiamo grazioso ascolto alle loro inchieste, osservate le solennità
volute <<dal nostro Collegio, avendo piena facoltà di accordare
i capitoli presentati al nostro <<Dominio dal Comune e Uomini
della terra di Este, accolti dal Nostro governo quali diletti <<nostri
fedeli, così vogliamo sieno osservati inalterabilmente da tutti
i nostri Rettori e <<sudditi nella seguente forma - Primieramente
vogliamo che gli Statuti e Ordini della <<predetta comunità
sieno osservati e posti in esecuzione tal quali si contengono <<nell’antico
Volume da essi estensi pubblicato - che i Podestà e rettori del
Nostro <<dominio, i quali di tempo in tempo fossero ivi preposti
coll’autorità del mero e misto <<impero facciano
cognizione di ogni cosa e causa che avvenisse sotto il loro reggimento
<<e possano far sentenza anche sulla vita degli uomini - che le
gravezze sulle cose e <<sui beni che si vendono in detta Terra
e Podestaria di Este sieno pagate nei modi ed <<ordini, alla stessa
guisa che si soddisfacevano al tempo del magnifico Signore <<marchese
di Este - sul vino a spina pagherassi al Dominio ducale dai venditori
invece
<<di tre denari, uno soltanto; sul vino in mastello per ogni lira
del suo valore un soldo; <<sul bestiame pagheranno l’acquirente
e venditore per ogni lira di prezzo un soldo per <<cadaun capo;
sulle beccherie per ogni libbra di carne due denari piccoli; sull’olio,
cacio <<e carni salate e sul lino nella spuola un denaro ad ogni
libbra; per ogni stajo di frumento <<e di legumi, che si venda,
un soldo; per l’orzo e miglio, per ogni stajo, otto denari de’
<<piccoli; per ogni staio di sorgo e spelta che si venda, paghinsi
sei denari piccoli. <<Nessuna gravezza sui veicoli.
<< Del rimanente in quanto al sale, vogliamo che trattinsi i Nostri
fedeli Estensi nel <<modo istesso in cui erano trattati gli altri
Nostri fedeli del Distretto padovano e veronese. <<Oltre poi le
succitate gabelle saran tenuti i predetti Nostri fedeli a pagare per
la mâcina <<ad ogni mese un soldo per ogni bocca dagli anni
cinque in su, tolto ogni altro <<pagamento.
<< L’onorario dei Nostri Rettori starà a carico del
nostro dominio.
<< Comandiamo inoltre che tutte le persone della Terra e distretto
di Este, di qua-<<lunque siasi condizione e stato, sieno tenuti
a sostenere i pesi, le fazioni e le altre gra-<<vezze reali e
personali tanto pertinenti alla detta Terra estense, quanto a que’
luoghi <<ove abitassero o vi stesser soggetti, ancorché
fossero cittadini di Padova, o foresi che si <<riducessero o si
avesser già ridotti ad abitare in Este e benché fossero
uffiziali forensi o <<famigliari del Signore da Carrara , i quali
ufficiali e famigliari pacificamente e sicura-<<mente potranno
far dimora tanto nella Terra estense, quanto in altro luogo del veneto
<<Nostro dominio senza impedimento o molestia pelle loro famiglie
e pei beni.
<< Di più se in avvenire facesse duopo di fare riparazioni
agli argini fluviali nella Terra <<d’Este o sua Podestaria,
gli uomini dei villaggi, e dei luoghi, ai quali quelle costruzioni <<tornassero
profittevoli, sien tenuti a pagare per giusta quota le occorrenti spese
in <<ragione delle possessioni e terre, a cui favore cade il vantaggio
delle arginature.
<< Vogliamo inoltre che le vendite fatte da Messer Francesco Novello
da Carrara ai <<cittadini (civibus) e agli abitatori della Terra
estense, rimangano valide, né possano <<essere impedite
o contraddette, fino a che non emerga qualche eccezione di diritto o
di <<fatto, come se fossero quei beni nell’attual possesso
del prefato Messer Francesco.
<< Inoltre concediamo ai fedeli Nostri della Terra atestina e
sue pertinenze di non <<essere obbligati a far parte di alcun
esercito, né di sostenere alcuna fazione come <<guastatori
o conduttori di carri, o altre personali gravezze fino a sei mesi da
oggi, salvo <<entro il limite del territorio e podestaria di Este,
se ciò si rendesse necessario .
<< Concediamo pure alla Comunità ed ai Nostri fedeli Estensi
quattro poste di mulini, <<che stanno nel fiume presso al ponte
della Torre co’ loro arredi, perché sieno tenuti e <<posseduti
nella stessa guisa che al tempo del magnifico Messer Alberto .
<< Concediamo ancora ai Fedeli nostri abitatori del distretto
e Terra di Este, che Girar-<<do Bacinella, Marco Nascimbeni, Floriano
Alessandri, e Manfrino da Bavone, che <<abitavano in Cornoleda,
luogo posto nel circondario de’ monti padovani , possano <<vivere
liberi e sicuri nella Nostra terra e distretto estense; volendo e determinando
<<espressamente che tutti affatto i cittadini e foresi e abitatori
del distretto di Este, ivi di <<presenza esistenti e dimoranti,
stiano salvi e sicuri nelle loro persone, beni mobili e <<stabili,
e ciò per eseguire quanto gli stessi in atto supplichevole implorano
dal Nostro <<governo prima della tradizione, possesso e dominio
della terra atestina .
<< Oltre a ciò i savii ed egregi personaggi Giovanni da
Cartura, Ottonello di Marco, e <<Bartolomeo Rizzardi, onorevoli
oratori pe’ cittadini e Nostra Comunità estense, hanno
<<presentato dinanzi a Noi alcuni altri capitoli, perché
dal Nostro governo fossero a loro <<concessi e confermati con
ispeciale grazia. Noi conoscendo quanto dovrà aumentarsi la <<fedeltà
nei leali Nostri sudditi, e come ciò possa condurre gli altri
ad imitarne il buon <<esempio , coll’autorità dell’antedetto
Nostro Collegio, in quanto riguarda alla inchiesta <<sul canonicato
della Pieve di S. Tecla, perché sia concesso che - gli uomini
di Este in <<unione all’Arciprete di quella chiesa, lo possano
promettere e concedere a qualche <<prete o ad altra persona la
quale sia addetta alla chiesa etc. - promettiamo di fare <<quanto
si potrà per investigare le intenzioni del Vescovo di Padova.
<< Sopra quel capitolo poi sull’Arciprete di Este, perché
continuar egli possa a <<possedere la decima del Concordato di
Monte di Sacco, come fino ad oggi ne ha <<posseduto la metà,
e tutta la decima di Casaruola, acconsentiamo a questa dimanda, <<riservando
ogni ragione a chiunque potesse averla prevalente.
<< Per quanto spetta finalmente all’ultima dimanda, con
cui dal Nostro ducale dominio <<si chiede che non sia aggravata
quella Nostra Terra, Comunità ed Uomini estensi, più <<che
gli altri luoghi, e castelli Nostri circostanti alla stessa Terra, affinché
gli Estensi non <<abbiano cagione alcuna per abbandonare la loro
patria, e recarsi ad abitare in altri <<luoghi, tutto questo riputiamo
di graziosamente concedere; ed a maggior evidenza delle <<cose
tutte promesse abbiamo ordinato che fosse esteso il presente Privilegio,
e sia <<munito della nostra plumbea bolla. Dato del Nostro Ducale
palazzo nell’anno dell’in-<<carnazione del Signore
1405, nel giorno 16 del mese di Settembre, indizione XIV >>.
Ecco la Carta o Privilegio che regolò le nostre condizioni in
faccia alla dominante repubblica di Venezia per quasi quattro secoli
(1405-1797). Troveremo spesso nel vegnente Periodo contrasti ed obbietti
per l’esatta osservanza di quello Statuto, o Privilegio che dir
si voglia, talché diverrà talvolta di necessità
ricorrere alla giustizia del veneto Senato, il quale o ne darà
nuova conferma, e ne richiamerà da’ suoi Rettori l’adempimento,
col dar la giusta soddisfazione agli Estensi cittadini.
Comunque però avvenisse, quella Carta rilasciata in quell’occasione
dovè migliorare d’assai la nostra condizione; e sien rese
lodi a que’ nostri maggiori, che esperti ed oculari seppero prevenire
le calamità della guerra ed in pari tempo procurare alla loro
patria, sotto la nuova dominatrice repubblica, una posizione se non
brillante, almeno proficua ai materiali interessi di questa amena contrada.
CAPO VII
DELLA CONDIZIONE DI ESTE NEL
MEDIO EVO
Giunti al fine del terzo Periodo,
dando un’occhiata retrospettiva al percorso cammino, uopo è
avvedersi che non il solo avvicendarsi degli avvenimenti può
costituire la storia di una terra qualsiasi, ma doversi ricercare fra
le più occulte memorie, delle sue leggi, de’ suoi costumi
(spesso corollario di quelle) e di ogni altra cosa, che possa recare
interesse a chi dopo alcuni secoli vuole sapere le condizioni in che
viveano i suoi antenati. Dell’epoca romana abbiamo detto nel Periodo
primo, quanto colla scorta dei superstiti monumenti e dei più
leali scrittori dell’antichità potemmo come in quadro presentare
ai tardi nepoti. Del terzo e quarto Periodo, nei quali sta rinchiuso
il medio evo italiano, diremo adesso, non però in guisa che non
ci si presentino ad ogni tratto delle lacune, colpa la mancanza, come
dissi ancora, di nostre cronache contemporanee e della generale oscurità,
che involve quel tempo. Nullameno senza scoraggiarmi, mi accingo all’impresa,
e tengo fiducia che pur qui troveranno i miei lettori notizie non indegne
del soggetto ch’io presi a trattare. Sarà anzi questo come
a dire un completamento della storia di quella lunga età millenaria
(476-1405) le cui vicende io venni tracciando fin qui, età se
non tanto illustre pegli estensi quanto la euganeo-romana, più
feconda al certo di nazionale movimento, e ricca di vive speranze di
futura grandezza.
Descrizione di Este
Cessate o rimesse alquanto le
barbariche devastazioni tra il quinto e settimo secolo, Este già
orbata di quasi tutti i suoi abitatori, a poco a poco venuto il regime
longobardico, andava risorgendo dalle sue rovine e ripopolandosi, conservando
quasi del tutto l’antica ed amena sua posizione alla punta meridionale
de’ beati colli d’Euganea, volgendo un po’ più
all’oriente che in antico non fosse.
Poco o nulla si può dire intorno allo stato di questa terra,
se non ne togli le memorie delle sue chiese e de’ suoi monasteri
, fino a quell’epoca avventurosa per questa patria, allorché
intorno alla metà del secolo XI Alberto Azzo ottenuta l’imperiale
investitura, fissava sua dimora in questa contrada e da essa prendeva
il suo nome, ogni altro facendo obliare alla posterità (pag.
239). Allora si fu che seguendo l’uso di quell’epoca armigera,
venne innalzata la nostra rocca sopra quella elevatezza che si scorge
all’estremità meri-dionale dell’estesa collina che
sovrasta ad Este, e domina di là tutta la parte abitata del castello.
Maggiormente difesa la rocca rendeva il canale detto il Sirone, che
colle sue acque le lambiva il piede e la divideva dal resto della terra
estense.
La rocca che vediamo tuttora circondata di mura e di torri, bastantemente
conservata nella sua storica interezza, non è già quella
medesima che fu innalzata da Alberto Azzo alla metà circa del
secolo XI. I molti assalti a quella arrecati dalle genti eceliniane,
e quel più d’ogni altro terribile assedio di Cane Scaligero
(pag. 409), ne scassinarono quasi dai fondamenti le antiche muraglie.
Per altro quella torre più bassa che si vede al finir del borgo
di S. Girolamo volgendosi a sinistra, di assai più rozzo lavoro
delle altre torri che le soprastanno, è certamente un rimasuglio
delle più antiche nostre fortificazioni. L’attuale cinta
e torri della rocca furono fabbricate quasi di nuovo da Ubertino da
Carrara (1339), e si sono tanto bene conservate, io credo, perché
era già allora quasi finita per Este l’epoca dei lunghi
assedj e delle spietate ire degli irreconciliabili nemici.
Attacco al colle sostenente la rocca, era fabbricato il palazzo marchionale
in forma di ben guarnita fortezza, difeso di fronte dalle acque del
Sirone, e restando all’indietro congiunto alla rocca mediante
una cinta in largo giro di buone mura tramezzate da torri. Pochissime
sono le memorie che ci restano del castello marchionale, del quale se
ne vede tuttora una buona parte.
Non è però a credere che il palazzo eretto da Alberto
Azzo fosse quale tuttora ne vediamo gli avanzi. Sappiamo già
dalla storia (pag. 341) che quasi distrutto il palazzo dei Marchesi
nell’assedio del 1213, l’imperiale Rescritto che rimetteva
la casa estense nei suoi diritti, ordinava al Comune di Padova di rifare
a sue spese il palazzo dei Marchesi in Este. Altre vicende avrà
subito ancora quella residenza che molto più estesa era di quello
che oggi si vede, sembrando che gli successivi padroni vi abbiano fatto
di molti cangiamenti . Sarà sempre a compiangersi che sì
la rocca che la casa marchionale non sieno in possesso del nostro Comune,
benché fino ad ora possiamo star contenti che non fu abusato
in alcuna guisa del loro diritto da quelli che posseggono il più
bello e vasto monumento di patria istoria.
Venendo ora a parlare del resto del castello estense, che si allargava
innanzi alla rocca di qua del fiume, dovrò attenermi in gran
parte all’Alessi, mentre il tempo a noi trascorso, nulla aggiunse
alle nostre memorie de’ mezzi tempi, ma anzi ci sarà d’uopo
notare a quando a quando frammenti e cose, che il tempo e gli uomini
andarono fin qui cancellando e togliendo allo sguardo indagatore di
antiche memorie. Veggasi da questo la necessità che le storie
municipali sorgano oramai complete e sicure, pria che questo secolo
fatto già più edace de’ suoi antecessori, s’affrettando
ad altre idee e costumi, cangi faccia o sito a quanto le città
presentavano di monumenti dei tempi che furono.
Era la nostra Ateste cinta in parte di mura e in parte di terrapieni
. Dal lato di tra-montana le scorreva il Sirone. Sorgeva la muraglia
dal sito che dicesi la Volta mantovana sino dirincontro alla prima torre
angolare della rocca, e così dall’altra torre angolare
verso S. Girolamo sorgeva il muro, fino a quell’altro sito chiamato
la Borina e poi Volta dei Mori. Parte di questo muro è già
demolito, parte è compreso nelle case adiacenti, e parte vedesi
tuttora scoperto . La linea di mezzo parallela al castello era vacua,
congiungendosi probabilmente le due estremità, così da
se disgiunte tra le due torri angolari, con catene a traverso del fiume.
Dalle altre tre parti della sua circonferenza erano alzati i terrapieni
o terragli, ch’erano difesi a levante dal fiume della Restara
che usciva dal Sirone nel sito della Volta dei Mori, a mezzogiorno e
al tramonto erano cinti li terrapieni da profonda fossa che potea ricevere
l’acqua del fiume alla Volta mantovana e alla Restara. I nostri
Statuti pubblicati nel 1318 c’indicano chiaramente questi terrapieni,
laddove determinano << non essere lecito inter-<< rare le
fosse di Este fatte ad uso di fortificazioni della terra stessa, né
in alcun modo <<spianarle, né in altra guisa occupare le
strade vicine ai terragli in tempo di guerra >>. Quelle mura che
in gran parte stanno tuttora in piedi nella contrada di S. Francesco
e di Vallesina furono fatte erigere sopra degli antichi terrapieni dal
governo veneziano nei primi anni del secolo XV, cioè poco dopo
la nostra dedizione a quella repubblica. Così abbiamo dato la
storia completa delle nostre mura.
Era Este divisa in terzieri, cioè di S. Tecla, di S. Pietro,
e di S. Martino. Aveva quattro porte, quella detta ora Portavecchia,
che si diceva Vitaliana, e poi Carrarese al tempo che i Signori di Carrara
ebber qui loro dominio. Stava questa di faccia alla rocca ed al palazzo
marchionale, ed essa metteva capo la larga contrada di Borgo nuovo.
La seconda era detta di S. Martino presso al ponte in oggi detto delle
Grazie; la terza di S. Tecla nel sito che oggi dicesi il Ponticello
sulla strada che dal duomo conduce al monte; e finalmente Portasecca
era detta la quarta, posta alla punta del muro che cominciava di faccia
alla torre angolare della rocca alla parte di S. Girolamo. Così
si denominava o perché rare volte si apriva, o perché
venne poi otturata .
Tutto il giro delle mura e dei terrapieni era munito in più luoghi
di torrioni e torricelle. Fortunatamente abbiamo una memoria delle principali
torri colle precise loro distanze e denominazione, trovata nell’antico
Volume dei nostri statuti; e noi ad una ad una le indi-cheremo.
La torre del Leone stava verso tramontana dirimpetto alla torre angolare
della rocca, che sta verso l’occaso. N’era in piedi una
parte al tempo dell’Alessi ; ora non più se ne vedono traccie.
La torre di S. Bernardo stava oltre la porta di S. Tecla, chiesa che
aveva a quel tempo rivolta la sua facciata alla parte opposta, cioè
riguardava a ponente invece che a levante, come in oggi si vede. Anche
questa è affatto sparita.
Seguitando a quella parte il circuito della città, la torre di
S. Pietro dovea stare di fronte al lato settentrionale dell’antica
chiesa di S. Pietro alla sponda opposta del fiume. E qui appunto terminava
il muro della rocca e cominciava il terrapieno.
Poi si trovava la Torre dei Frati, che stava fissa all’angolo
del terrapieno che da ponente volgevasi a mezzogiorno. Così chiamavasi
per essere vicina al monastero de’ minori conventuali di S. Francesco
che fu eretto solo nel secolo XIII, e la vicina chiesa nel secolo XIV.
Altra torre era, dove sta adesso la Portavecchia, che torre carrarese
si appellava nel secolo XIV; ed un’altra se ne trovava all’angolo
meridionale del terrapieno, dove ora il vicolo di Vallesina si rivolta
per riuscire nella larga contrada delle Grazie.
Il torrone della Borina era nell’altro angolo verso levante, ove
il terrapieno finiva e cominciava il muro verso S. Girolamo.
Per ultima nomineremo la torre di Portasecca, di cui se ne vedeano le
traccie dal nostro Alessi entro le case della contrada di S. Martino
mettenti al di dietro verso la chiesa di S. Girolamo.
Queste erano le più antiche torri; ma dopoché, come dissimo,
sul principio del secolo XV vennero sopra de’ terrapieni fabbricate
in giro le mura, d’accosto a queste si trovavano altre torri diverse
dalle predescritte, come rilevava l’Alessi da carte anche del
secolo XVI, soggiungendo però che di tutte quelle non ne rimaneva
vestigio alcuno.
Altre torri poi, oltreché a difesa intera del castello, erano
sparse pel contado atestino quali altrettanti antiguardi che in quella
ferrea etade stavano a protezione della residenza dei signori feudali.
Una torre era al lato destro della strada che conduce a Bavone di faccia
alla collina, ora di proprietà dei monaci Armeni. Grosso vestigio
ne aveva veduto l’Alessi, che ora è affatto sparito .
Più avanti sulla stessa strada al luogo detto Migliaro, appena
un miglio da Este lontano, egualmente a destra , era un altro torrione,
parte delle cui muraglie si può tuttavia scoprire in quella parte
di fabbrica (ora Sceriman) dove precisamente spunta all’occhio
di chi passa un pozzo. Alla custodia di questa rocca tenevasi anche
nel secolo XV un capitano che da un notarile protocollo si sa che nel
1418 era Messer Stefano di Onado milanese .
Volgendosi ora da borea a levante all’altro sito detto la Mota
due miglia da Este inverso Monselice, ivi trovavasi un fortilizio posto
tra il fiume e la strada pubblica, sopra un rialzo di terra fatto a
mano il quale sembrava aver dato il nome a quel sito. Consisteva proba-bilmente
questo forte in una torre circondata anche di muro, che perciò
licevasi anche Doglione . Ora è tutta allivellata la via, né
alcun vestigio ce ne rimane.
Nell’angolo dove il fiume che viene dal Sostegno della Brancaglia
entra in quello della Restara, eravi eretta una torre che licevasi la
Torre di Prà. Si sa che al 1501 si trovava in piedi, null’altro
dappoi.
Sopra lo stesso fiume si conserva ancora intatta un’altra Torre
presso al ponte, da essa appunto nominato, che domina la strada che
da Este reca a Montagnana. Era questo forte abbracciato da un ramo di
esso fiume che scorreva appunto per quella fossa di Casale fatta scavare
dai Carraresi (pag. 419) che usciva dal fiume di Este presso al Ponte
di S. Pietro . Ai tempi dei Carraresi, ed eziandio durante l’epoca
veneta quella Torre fu guardata da un castellano, e noi l’abbiam
già veduto nel 1318 esser occupata dalle genti Scaligere quale
stâtico pel padovano Comune onde tener d’occhio il vicino
castello di Este (pag. 410) .
Un betifredo che appellatasi anche Torresino ergeva la sua fronte sulla
sponda della stessa fossa di Casale, e precisamente là ove la
strada che viene all’ingiù dalla Chiesa del Pilastro va
alquanto ascendendo. Sussisteva ancora nel 1599 . Al suo tempo, dice
l’Alessi che n’era sopra terra una parte sola delle fondamenta;
ora poi n’era scomparsa ogni traccia, atteso l’alto livellamento
ivi avvenuto della strada e della campagna.
Proseguendo il circuito di Este alla parte d’occidente, dinanzi
al Ponte di S. Pietro vi era una torre con unite muraglie da formare
una specie di rocca. Se ne ha memoria nell’anno 1400 allorché
alla sua custodia stava un capitano . Dice l’Alessi che alla sua
età se ne vedeano alcuni pezzi di muro nella casa di ragione
allora de’ nobili Contarini, fabbricata propriamente dove era
stata la rocca.
Finalmente altra torre stava sopra la cima del colle detto Murale dalla
parte che riguarda ad Este. Alcune vestigia se ne trovavano ancora nell’epoca
del nostro Alessi, il quale ci dice che a sua memoria ne erano state
cavate le fondamenta .
Da cotante torri e piccole rocche era difeso questo nostro castello,
oltre a tutte quelle vere fortezze che ne assicuravano tutto quanto
il suo vasto territorio. E Cero, e Calaone e Vighizzolo ed altri forti
di cui più particolarmente diremo nella seconda Parte, tendeano
a salvare i Signori estensi dagli esterni nemici. Segno egli è
questo della grande importanza, in che era Este tenuta da quelli che
la dominavano. Scaddero e fur resi inutili in gran parte i castelli
alla foggia del medio evo dopo le nuove arti introdotte del guerreggiare
e degli assedj; ma è bella cosa vedere tuttora que’ grandiosi
monumenti sfidare il tempo di struggitore, ed attestare ai posteri il
valore dei nostri progenitori. A noi talvolta già pare di vederli
ancora su quelle torri, su que’ merli difendere la minacciata
patria dai soprostanti nemici, e spesso cader sotto di quelle onorande
vittime di valore e di gloria.
Comunità di Este
Abbiamo già toccato in
più luoghi della nostra storia siccome d’allato ai Marchesi
signori non mancò mai in Este la comunale rappresentanza. A quale
epoca propriamente abbia avuto suo principio il Comune estense passate
le barbariche devastazioni, ci è affatto involto nell’oscurità,
la quale ricopre pure la culla di quasi tutti i Comuni italiani. In
ciò restò sempre largo campo alle storiche disputazioni.
Riguardo al Comune atestino, io sarei per ritenere che già esistesse
prima della venuta di Alberto Azzo marchese in queste contrade, che
fu prima della metà del secolo XI. Il cav. Morbio, grande illustratore
delle cose italiche della età di mezzo, appoggiato a valide ragioni,reputa
che appunto verso il mille sorgessero i comuni italiani . Diffatto un
antico indizio della comunità estense lo abbiamo trovato anche
nel 1117 in que’ consiglieri di nascita estense, i quali assistevano
ai giudizi di Enrico il Nero duca di Baviera e Signore di Este (pag.
259).
Ma la più luminosa prova dell’esistenza del nostro Comune
la troviamo, allorché nel 1182 gli uomini di Este mossero quella
grave lite ai Marchesi Alberto, Obizzo e Bonifacio, i quali dovettero
le proprie ragioni recare innanzi a due Messi imperiali mandati a ciò
dall’imperatore Federico, siccome a suo luogo abbiamo distesamente
narrato (pag. 279). Quello splendido avvenimento ci apprende in qual
guisa la nostra Comunità dovea ben molto prima essersi formalmente
costituita, e, al dire del nostro Alessi << questo ci dà
un <<buon lume per conoscere in quel tempo la condizione d’Este,
che altri superiori non <<riconosceva dopo i Marchesi, che la
sovranità dell’Imperatore e la signoria moderata <<che
ne avevano questi Principi >>.
Quali persone governassero nel più antico tempo questo Comune,
noi possiamo quasi asserire francamente essere stati i Consoli, ché
tali ci appajono quei tre Consiglieri allato al Duca Enrico nel 1117,
di cui testé parlammo, ufficio che troviamo tenere i Consoli
stessi dopo la partenza dei Marchesi, presso i nostri Podestà,
laddove è stabilito nel nostro Statuto (Cap. 19) << essere
incombenza dei Consoli esercitare bene e legalmente il loro <<ufficio
presso il Podestà o suo vicario sopra tutti gli affari del Comune
di Este >>. Ecco quello che nel secolo XII facevano i nostri Consoli
presso ai Marchesi, siccome altrove i Giudici presso i Conti.
Sessanta persone fra le più distinte del Comune teneano la pubblica
rappresentanza, sedenti nel Consiglio a trattare degli interessi della
Comunità: e fra’ Consiglieri sceglievan-si quasi tutte
le civiche magistrature della comunità, delle quali più
avanti diremo. All’epoca poi della confezione dello Statuto (1318)
si trovano que’ rappresentanti ridotti a quarantot-to detti buoni
viri, sedici per ogni terziere. Abbiamo una divisione di beni allodiali
tra il marchese Azzo VI e la Comunità estense del 1204, la quale
venne conchiusa in pieno consiglio degli Uomini di Este .
Bella scoperta altresì pella storia di que’ tempi tanto
oscuri si è fatta in due documenti, dai quali emerge che anche
il nostro Ponso e forse altri villaggi avevano il loro Comune rappresentato
dai Consoli che poi si dissero Uomini di Comun, i quali promulgavano
i loro ordinamenti .
Ma dove teneva sua residenza l’antico nostro Comune? È
certo che la più vetusta casa della Comunità atestina,
non era dove fu dappoi, e dove tuttora si vede, in un canto della piazza
maggiore. Il più antico palazzo comunale dové star situato
dappresso alla chiesa di S. Tecla, siccome ne fa fede quel placito che
tenne Enrico il Nero nel 1117 assistito dai tre Consiglieri o consoli
del Comune. Quell’atto venne eletto presso S. Tecla (Juxta Santam
Teclam); e così pure ivi si tenne quella celebre sessione del
1182 per trattar della lite tra i Marchesi e la Comunità dinanzi
ai Messi imperiali (pag. 278). E ciò ècci confermato dai
nostri Statuti (Cap. 65), laddove si ordina che nessuno venga seppellito
presso alla casa del Comune posta daccanto alla chiesa di S. Tecla .
Il nostro Alessi a precisare possibilmente quel sito, sul riflesso che
la chiesa di S. Tecla si trova congiunta a tre strade pubbliche, che
a levante, a mezzogiorno e a ponente la cingono, posa l’antico
palazzo comunale verso il monte tra la casa arcipretale d’oggigiorno
e la strada; ché anzi egli stesso ne vide alcuna traccia in una
grossa muraglia che fian-cheggiava l’antico cimitero .
Coll’accrescersi poi della popolazione, e dacché la piazza
maggiore si circondava di ampli fabbricati, si sarà ivi cercato
un più opportuno locale, dove appunto oggi lo vediamo. L’Alessi
oggi opinerebbe e a molta ragione che quell’antica casa venisse
distrutta nelle sanguinose vicende avvenute ad Este nel secolo XIV all’epoca
scaligera, rimanendo poi affatto buio se quel locale sia stato e quando
donato alla chiesa o con altro fondo permutato.
Governo dei Marchesi
Per la pace di Costanza (1182)
le città italiane colla libertà ottennero le regalie e
larghi privilegi, salvo una specie di alto dominio riservato agl’Imperatori
germanici. Uno fra’ principali diritti imperiali si era quello
di giudicare in appello delle controversie pubbliche e private, al qual
fine deputavansi il più delle volte i Nunzii; e noi abbiamo già
veduto alcuno de’ nostri Marchesi esercitare un simile uffizio,
ed Obizzo in tale qualità tener consiglio e pronunciare sentenza
in Este (1184) tra l’abate di S. Zeno di Verona e Nicolò
degli Avvocati (pag.279). Quanto poi al particolar governo marchionale,
doppia sorte di regalie noi troviamo, le une dei Marchesi verso l’Impero
in ricognizione del loro feudo estense, le seconde eran dovute dagli
Estensi ai loro Marchesi.
<< Questo feudo in Este trovarono e tennero i Marchesi dal Duca
Enrico, eccetto le <<regalie del dinaro ed altre che spettano
all’Impero e che i Marchesi ottennero in feudo <<dagl’Imperatori
>>. Così si espresse Guglielmo da Rufaldo nelle sue deposizioni
fatte innanzi Messer Otton Cendadario giudice milanese spedito in Este
(1193) da Enrico VI Imperatore per riconoscere e giudicare della questione
insorta tra le principesse di casa estense Adelasia e Oremplasia contro
il loro zio paterno Obizzo I . Le altre regalie cui erano soggette i
Marchesi, erano il Fodero, ossia l’obbligo di alimentare i soldati
ed anche lo stesso Imperatore e la sua famiglia e i suoi cavalli, allorché
passava pel paese dell’infeudato signore; e la Parata, per cui
doveansi sostenere le spese solite a farsi in occasione che gli stessi
Imperatori si recavano in Italia e per lo più a Roma per incoronarsi.
Le regalie poi che i Marchesi traevano dagli estensi erano di quelle
specie che si praticavano dai signori feudali, cioè coll’esigere
da’ suoi soggetti l’arimannia, sorte di servigio dell’armi
, le côlte, che consistevano in tanto grano e tanto soldo per
ogni campo ; e finalmente tenevano una speciale giurisdizione sopra
i popoli affittajuoli e livellarii imponendo loro dei servigi per la
corte del padrone, come carreggiare, cavalcare, e altrettanti diritti
che costituivano le giurisdizioni minori chiamate distrizioni, oltre
a quelle che appartenevano al vero principato .
I Marchesi tenevano eziandio le Masnade, siccome ce lo apprende un altro
testimonio Aldegerio . Avevano pure i loro Messi o Visconti o Giudici
che governavano in loro vece. Un Pietro Visconte pel Marchese in Este
lo troviamo nel 1079 recarsi a Verona per rinnovare una investitura
in favore di quel capitolo de’ Canonici. Un altro Domenico Giudice
per Azzo VI marchese d’Este l’abbiamo in una memoria delle
antichità estensi appresso il Muratori .
Non mancava ancora al governo de’ Marchesi la camera fiscale,
e ne abbiamo la prova nel ripetuto documento del 1117, allorché
Enrico il Nero tenne quel placito, nel quale dopo aver imposto una pena
pecuniaria ai contravventori, metà di quella, nel caso venisse
percetta, applica quel Duca alla propria Camera, che anche Parte pubblica
è chiamata in altra carta .
Principale prerogativa adunque che i Marchesi inverso agli Estensi professavano,
sembra fosse quella di tener placiti nella casa del Comune, assistiti
dai consoli e giudici atestini per amministrare la giustizia alle parti
ricorrenti; commettevano perciò i Marchesi ai Giudici di dire
il loro parere sopra le carte e ragioni prodotte dai litiganti, mettevano
anche bandi, ed imponevano delle pene per somme anche ragguardevoli,
e finalmente ordinavano al Notajo di registrare la loro sentenza. Tanto
fece il Marchese Folco I in Monselice nell’anno 1115 in un placito
tenuto a favore delle monache di S. Zaccaria di Venezia . Finalmente
anche i Marchesi a guisa degli Imperatori imponevano ai loro soggetti
il fodero, le côlte, e il servizio militare .
In fine ci è constatato quali veramente fossero i paesi costituenti
il feudo estense, cioè Este e la sua corte, Solesino, Villa di
Villa colle sue corti, Merendole, Arquà, Vighizzolo, Lozzo e
la sua corte, e la terza parte di Rovigo. Così ha deposto il
testimonio Aldegerio.
I Marchesi non avevano alcuna dipendenza da Padova, siccome scrisse
qualche cronista di quella città. Anzi uno Statuto padovano del
1225, e quindi posteriore anche alla prima vittoria dei Padovani sopra
i Marchesi (1213), annoverando i principali cittadini, ai quali vieta
specialmente di esercitare alcun officio nel territorio padovano, cioè
alcuna giurisdizione, come spiega l’Ongarello, non fa pure menzione
di alcun marchese di Este, abbenché avesse già Aldobrandino
fino dall’anno 1213 ottenuta la cittadinanza padovana (pag. 318)
.
I Marchesi poi tenevano sparsi pel territorio atestino molti loro beni
allodiali, che proprii anche si chiamavano, dipendenti da acquisti,
da donazioni o da disposizioni testamentarie; e ne poteano disporre
senza alcun vincolo di servitù od altri aggravii. Alcuni di questi
beni i Marchesi stessi li davano in feudo ai loro vassalli o clienti,
e uno di questi parla di Uberto di Rocca, altro dei testimonj del 1193,
laddove si esprime che il Marchese Alberto comperò un bene in
allodio da Faldino da Lendinara, e che glielo rese a titolo feudale
.
Data in tal guisa un’occhiata a sbalzi dirò così
sul governo dei Marchesi, gli antichi nostri antenati poterono ben essere
lieti di non aversi incontrato con alcuno di que’ signo-rotti
che facilmente si cangiavano in despoti e tiranni. I nostri Marchesi
che per più di due secoli (1050 ca 1294) abitarono in mezzo agli
Estensi, non commiser mai alcuna di quelle crudeltà che pur troppo
insanguinarono la istoria di molte città italiane. Un misto governo
qual era quello dei Marchesi, e così mite e giusto, non saprei
ove altrove rintracciarlo nelle istorie italiane de’ mezzi tempi.
E qui noi concluderemo colle belle parole del Sismondi, che, straniero
all’Italia, scriveva tenendo innanzi agli occhi tutto il quadro
delle vicende italiche di quell’epoca. << Il Marchese di
Este (Alberto Azzo) erasi giovato della vantaggiosa situazione delle
terre per conservarsi indipendente in mezzo alle potenti repubbliche
che lo circondavano; erasi inoltre guadagnato l’amore de’
suoi vassalli con un giusto e moderato governo, ed aveva loro permesso
di partecipare del vantaggio di un’amministrazione repubblicana
eleggendo i loro consoli >> .
Così ben conosceva il Sismondi la peculiare condizione di noi
Estensi durante la deno-minazione de’ Marchesi, in mezzo al lungo
cammino, che quel grande storico fece attraverso ben dieci secoli di
storia italiana!
Beni pubblici della Comunità e dei Marchesi
Era antico e naturale il diritto
degli Estensi sopra i beni comuni, ma eziandio i Marchesi vi avevano
le loro ragioni dipendenti dalle concessioni imperiali; cosicché
erano quelli rimasti d’indivisa proprietà. Ma non era difficile
che a lungo andare insorgessero delle reciproche differenze, pretendendo
sovente gli abitatori di Este, che ciò che era pubblico fosse
di tutti. Il perché sappiamo che nel 1182 la Comunità
atestina mosse quella lite ai Marchesi che fu portata fino all’Imperatore,
il quale ne dava sentenza, che già nel suo intero tenore riportammo
(pag.276); e fu allora stabilito per sempre che le paludi ch’erano
sempre state tali, i fiumi e le strade divenissero regalie dei Marchesi,
che essi riconoscer doveano dall’impero; i beni poi pubblici nella
pianura, sul monte e nei boschi dovessero rimanere, parte di ragione
dei Marchesi e parte della Comunità.
All’anno 1189 il marchese Obizzo I assieme alla Comunità
d’Este donò pubblic’Atto alla Chiesa delle Carceri
in perpetuo la facoltà di pascolar e tagliar legna nelle pertinenze
di Este, Gazzo e Vighizzolo, locché addimostra il promiscuo uso
che i Marchesi e la Comunità aveano sui beni detti comunali e
ciò in consonanza a quanto sopra si è detto.
Possediamo poi una suddivisione di beni del 1204 tra il marchese Azzo
VI e la Comunità atestina, solennemente stipulata innanzi al
Sindaco del Comune e in piena sessione del Consiglio , mediante la quale
pervennero al Comune Estense circa 2700 campi situati in Palugana, verso
Tresto, Peagnola, Pra verso Villa, Calcatonica, ed altri luoghi detti
la Palude, Altura, Argora, Asola, Campolongo. La maggior parte di queste
possessioni erano allora boschi e campagne paludose, e talune anche
coperte di acque. Furono poi in seguito ridotte a coltura, ma le vicende
e le strettezze de’ tempi ne lascia-rono la minima parte al Comune,
che dovette spogliarsene a volta a volta per sopperire alle necessità
dei governi succedutisi da quell’epoca in poi in queste contrade.
Statuti
L’ordine delle cose ci
richiama a dire dei nostri Statuti, i quali quantunque abbiano governato
il nostro Comune fino alla fine dello trascorso secolo, pure, datando
la loro sistematica compilazione al principiar del trecento, spettar
devono a questo Periodo della nostra storia. Egli è anche inteso
che le norme statutarie atestine dovettero preesistere anche all’epoca
(1318) in cui esse furono a corpo ridotte.
Abbiamo già veduto (pag. 209) come si fossero introdotte in Italia
le leggi longobarde e poi le saliche, quindi le alemanne, le bavaresi,
le riparie, e le borgundie a di struggimento del Romano diritto e che
molte famiglie venute di là dei monti facessero poi professione
ne’ loro atti della legge di quella nazione, da cui originavano,
siccome la Casa dei Marchesi estensi viveva secondo la legge longobarda
(pag. 229). Nel secolo XII decadde però una tale consuetudine
e tornarono a vivificarsi le leggi romane, le quali per quanto comprovano
i più esperti storici e giureconsulti, giammai venner dimenticate
in Italia.
Ed appunto un’emazione della romana giurisprudenza ed in parte
anche delle nuove leggi barbariche introdottesi in Italia furono gli
Statuti de’ Comuni italiani di quell’epoca, i quali ne furono
governati fino al cadere del passato secolo, cioè non cessarono
che nella generale rinnovazione della giurisprudenza europea .
I nostri Statuti furono ridotti a corpi di leggi nell’anno 1318
per opra di sei uomini esperti nelle cose patrie, i cui nomi ci rimasero,
e sono Antonio del fu Ugone, Gugliemo Spezzatane, Manfredo Notajo, Antonio
del fu Rainaldino, Pietro del fu Gerardino, e Lodovico Notajo del fu
Raimondino, i quali erano stati all’uopo designati ed eletti in
pieno consiglio della Comunità atestina in quell’anno 1318,
nel quale era Podestà d’Este pel Comune di Padova Messer
Francesco Campaniola. E l’anno susseguente il libro degli Statuti
estensi scritto da quel Lodovico Notajo, e bene esaminato da Taddeo
da Fra baldo giudice e vicario del successivo Podestà Messer
Sacheto de Rivieri, venne pubblicato per la pubblica sua osservanza.
Tutto ciò ci è indicato nel Preambolo al patrio nostro
Sta-tuto.
Del Podestà. È
già noto che attese le intestine discordie delle città
italiane fino dal secolo XI i cittadini medesimi ne affidavano il governo
e la tutela contro gli esterni ed interni nemici alla capacità
e previdenza di un sol uomo di chiaro ed illustre nome, che per lo più
era trascelto dal grembo di altre città amiche o collegate, e
questo personaggio assennato e prudente si disse Podestà. Assai
nobile era riputato un tal carico, né ad esso rifiutavansi gli
stessi Signori e principi italiani del più alto conto, e noi
già abbiamo veduto che più volte i nostri Marchesi ebber
la podestaria di Verona, di Vicenza, di Ferrara e più spesso
di Padova.
Anche Este cominciò ad avere il suo Podestà ben di buona
ora, e com’era naturale, esso veniva eletto dal Marchese allora
dominante, ed abbiamo già fatta memoria di quel Pileo figlio
di Uguccione vicentino Podestà di Este nel 1241 a nome del Marchese
. Di altri podestà durante il governo marchesano non abbiamo
documento alcuno che ne faccia memoria.
Caduti gli Estensi nel 1294 sotto il regime della padovana repubblica,
dovettero da quella accettare i loro Podestà, ed anzi nel 1302
(15 marzo) venne pubblicato un apposito Statuto dal Comune di Padova
riguardante peculiarmente la podestaria di Este . Eccone le principali
disposizioni - Sia spedito in Este un Podestà cominciando dal
Giugno dell’anno stesso 1302 - Durerà in carica da sei
in sei mesi - Avrà l’età di oltre anni 30 - Terrà
egli il suo regime sopra di Este e suoi villaggi, Villa di Villa, Calaone,
Calcatonica e Vighizzolo - Avrà per suo stipendio 400 lire di
denari piccoli da soddisfarsi per quota dalle terre a lui soggette in
ragione de’ fuochi o famiglie - A sua guardia avrà sei
probi uomini bene armati detti beroveri e tre cavalli - debba la sua
elezione farsi nel Consiglio maggiore della città un mese prima
che cessi l’altro Podestà. Egli non potrà né
alcuno di sua famiglia sedere a mensa co’ suoi amministrati, né
accettar verun dono dagli estensi cittadini neppure a mezzo del terzo
sotto multa di 50 lire, data facoltà al Podestà di Padova
di farne investigazione e punire il colpevole - Il Podestà di
Este dovrà conoscere delle cause civili sino a sessanta piccoli
soldi, e non oltre alla medesima somma potrà imporre multe; dovrà
pure i delatori d’arme vietate, giocatori, rissatori, ladroni
ed altri delittuosi far prendere e porre in carcere, e tra tre giorni
spedirli al Podestà di Padova o ai giudici da lui delegati, e,
nel caso i rei fosser nascosti, denunziarlo allo stesso Podestà
in pena di 100 lire da levarsi dallo stipendio - Finalmente resta obbligato
il Podestà a non interrompere la sua residenza senza permesso
del maggior Consiglio di Padova. Troviamo quindi nel 1302 Podestà
di Este pel Comune di Padova M. Albertino da Bruzene avente anche a
suo vicario M. Giovanni di Mantella ; nel 1318, come testè lo
vedemmo, lo era M. Francesco da Campandola, e nel 1319 M. Sacheti de
Rivieri col suo vicario M. Taddeo di Fra baldo. Altri podestà
in Este dell’epoca padovana, né della scaligera, né
della carrarese e viscontea ho potuto rinvenire né sulle carte
estensi, né sulle patavine. Giurava anche il Podestà sopra
gli Evangeli di Dio di bene e fedelmente reggere e governare la Terra
di Este, le sue genti ed abitanti, di amministrare il suo ufficio legal-mente
e doverosamente, escluse le sollecitazioni, i doni, l’amore e
l’odio, , e di osservare e di far osservare gli Statuti tutti
della Comunità atestina nel rispettivo Volume contenuti o che
vi si uniranno dappoi (Capo I). Accettava la consegna della civica amministrazione
dai Consoli e dai Massari (Capo III). Doveano a lui finalmente piena
obbedienza le classi artigiane, e sono nominati i beccai, bettolieri,
locandieri, prestinai, venditori di pane, pescatori, fornaciari, barcajuoli,
mugnai, venditori di vino e di farine (Cap. IV).
Consiglieri o buoni Viri. Abbiam
già veduto che dessi erano un tempo in numero di sessanta. Non
è accertato in quale occasione si riducessero a quarantotto,
sedici per terziere della città, i quali erano approvati a mezzo
di squittinio fatto nel consiglio stesso ad ogni mangiamento del Podestà.
Poteano votare solo allorché v’erano trentadue presenti
(Cap. XII). Tutti poi facevano giuramento di provvedere al bene della
patria; di intervenire alle sessioni, sotto pena pecuniaria nel caso
non ci avessero una legittima escusazione (Cap. XIII). Questo, io direi,
benché logoro statuto, dovrebbe riattivarsi tuttora, escludendo
affatto le interessate procure.
Era poi assai provvida la maniera, della quale si servivano i nostri
maggiori per prendere le loro deliberazioni. Non potea comporsi alcuna
cosa, se prima non se ne leggeva chiaramente il tenore per esteso; e
prima di tutto andava a deliberarsi per votazione se fosse o meno la
cosa proposta vantaggiosa al pubblico bene. Quando ne veniva accettata
la discussione, si passava alla finale votazione per ammetterla o rigettarla
(Cap. XIV). Dal seno de’ 48 Consiglieri o buoni viri si traevano
mediante scrutinio le principali cariche del Comune. E primi erano
I Consoli. Questa carica nobilissima
d’origine romana sorse nelle città italiane prima dei Podestà,
ed erano que’ cittadini in numero or più or meno, eletti
dal popolo a prima magistratura. Introdotti poi i Podestà, restarono
bensì i Consoli in alcuni luoghi, ma ebber minore preponderanza
sulla cosa pubblica, ed anzi sovente ad altri uffizj furono addetti.
In Este essi venivano eletti col voto del Consiglio, uno per terziere,
e duravano quattro mesi. Loro special cura si era di ben tenere il libro
delle spese e delle rendite della Comunità a controllo di quanto
operavano i Massari. Doveano continuamente star in assistenza al Podestà
e al suo Vicario. Godeano l’onorario di 12 denari veneti grossi
per cadauno (cap. XIX e XX).
I Massari. Dessi erano propriamente
destinati ad agire gli affari del Comune. Duravano in carica due mesi,
e rendeano i loro conti ai Cattaveri, e nel numero di 20 venivano scelti
fuori dal corpo de’ Consiglieri (Cap. XXII e XXIII).
Il Sindaco. Era addetto a locare
e dare a livello i beni comuni, e porli all’incanto pubblico quando
occorreva; esigeva poi quanto era dovuto alla pubblica azienda. Si toglieva
dal seno del Consiglio e riceveva uno stipendio (Cap. XXXII).
I Cattaveri. Anche questi si
traevano dal Consiglio nel numero di tre, uno per terziere. Doveano
esaminare la ragione delle entrate e delle uscite e dei diversi altri
ufficj e la loro revisione si leggeva in piena adunanza della Comunità.
Erano semestrali; e quali inqui-sitori poteano portare accusa e pronunciare
anche condanna contro gli stessi funzionari del Comune, che avessero
fatto fallimento, o sottratta alcuna cosa al pubblico patrimonio (Cap.
XXXVIII).
Tre erano pure e semestrali
i
Massari Giurati, il cui uffizio
era eminentemente sociale. Essi doveano avvertire e giudicare sui danni
che si recavano in Este e suo territorio. Decideano, senza ricorso in
contrario, sulle questioni di confini, ed anzi li faceano porre dove
credeano fosse giusto, acquietando così simili controversie assai
aspre il più delle volte tra vicino e vicino. Teneano eziandio
ispezione sulle nuove opere rurali e strade di campagna, fosse e muraglie;
e finalmente erano preposti alla spropriazione forzata de’ beni
per ragione di pubblica utilità (Cap. XXXV, XXXVI, XXXVII).
I Saltarii. Vedremo più
innanzi siccome moltissimo li nostri Statuti curassero il bene dell’agricoltura,
principale ricchezza del suolo atestino. Questo magistrato composto
di 26 individui teneva, dirò così, la polizia agricola
del paese. Quattro di essi vegliavano alla campagna suburbana detta
Casale; otto al di là del ponte della Torre, e dieci per la parte
più estesa dei colli. Provvedeano, acciò non avvenissero
danni per opra di uomini o di bestie, e, se avvenuti, li denunciavano
ai Cattavéri sotto gravissime ammende in caso di omissione. Per
loro onorario godevano una tassa da percepirsi sopra i campi e la metà
delle multe inflitte, previa ricognizione degli stessi Cattaveri. Avvedutamente
si era anche disposto che il Saltario non potesse servire che ad un
solo Comune (Cap. XXXXI, XXXXII, XXXXIII). Sebbene pur adesso tanto
si scriva e si faccia a pro dell’agricoltura, eppure io crederei
che una simile magistratura, se l’avessimo, gioverebbe anche in
oggi alle nostre campagne.
Anche il Commercio in un paese agricolo dovea essere protetto dalle
sue leggi. Ad esso appunto troviamo avervi allora provveduto.
I Giusticiarii. Aveano questi
il carico di inquisire sulla rettitudine pubblica nei pesi e nelle misure
e specialmente sulle misure delle granaglie. Ad essi pure spettava il
soprav-vegliare alla sanità delle bestie da macello, denunziando
sotto severe pene i contraffattori alle leggi di pubblica sanità.
Uno n’era stabilito per terziere assistito da un Notajo (Cap.
XXXIV).
I Notaj. Componevano essi una
speciale corporazione, che Collegio addimandavasi. Assistevano alle
diverse magistrature, alle quali erano peculiarmente addetti. V’avea
il proprio Notajo presso il Podestà, presso il Sindaco, presso
i Cattaveri, presso i Giusticiarii e presso gli Esattori (cap. XXV,
XXVI, XXVII, XXVII, XXX, XXXIII, XXXIV).
Uffizi minori. Oltre le predette principali magistrature v’avea
il Collettore delle Multe (Cap. XXXIII), i Pubblici Banditori (Praecones)
i quali citavano le parti a presentarsi innanzi agli Uffizii, e levavano
i pegni fatti ad uso del Comune (Cap. XXXI). Vi si trovavano pure i
pubblici Stimatori (Cap. XXXIX) e finalmente i Commissarii alle Chiese,
destinati ad esigere i legati lasciati a favore delle chiese allo scopo
di ristaurare o rifabbricare (Cap. XL) .
Disposizioni speciali. Venendo
ora a dare una occhiata generale alle altre leggi statu-tarie, diremo
che più ch’altra cosa, si ravvisa in essa protetta l’agricoltura,
tanto pel numero delle prescrizioni che pella gravezza delle comminate
punizioni contro chi in qualsiasi guisa arrecasse danni alla campagna.
È curiosa in tale materia la pena inflitta a quello che rubava
uva o altre frutta, principale ricchezza de’ nostri colli. Nel
caso che il delinquente fosse stato men atto a pagare la impostagli
multa, veniva egli legato per un intero giorno ad una pietra in mezzo
alla piazza colle frutta rubate appese al collo (Cap. LII). Alla protezione
dell’arte agricola sono rivolte anche le seguenti disposizioni
- dal giorno di S. Pietro al tempo della vendemmia sia vietato a tutti
di entrare nei campi coltivati sui colli (Cap. XLVI) - dal mese di Aprile
al finir di autunno, resti proibito di andare a caccia coi cani sul
monte (Cap. XLVII) - nella stessa stagione nessuno vada a fare erba
sul colle (Cap. XLVIII) - Le bestie non inservienti agli usi agricoli
non vadano sul monte (Cap. XLIX) - veniva fissato ancora il tempo per
la vendemmia per impedire che l’uve fosser colte in stagione immatura
a danneggio dei vini (cap. L) - Gravissime pene erano stabilite contro
i ladri campagnuoli di piante (Cap. LVI), di pietre (Cap. LV), di legna
(Cap. LVIII) e contro i danni ai chiusi recinti e alle case rurali (Cap.
LXI), se recati anche dalle bestie sui colli e al piano (Cap. LXII);
ché anzi all’importante oggetto del bestiame danneggiante
ai campi, provvede apposito e nuovo statuto pubblicato nel 1424, che
fu anche inserito nel nuovo corpo statutario estense durante il regime
del podestà in Este Vettor Duodo pel dominio veneziano (Cap.
CXLIII).
Si cercò riparo agli incendii, obbligando i portatori di vino
a dover accorrere in caso di bisogno co’ loro vasi a recar acqua
al bisogno (Cap. CXXXI).
È generale la punizione col mezzo della multa, e pur troppo questa
faceva ammenda di azioni soverchiamente infamanti, perché a prezzo
di denaro si potesse scontare. Pure è questo il vizio di ben
molti statuti di quell’epoca. Tali delitti erano la bestemmia
(Cap. XCIII), lo spergiuro (Cap. XCIV), la pubblica violenza (Cap. XCIV)
e la falsificazione delle misure e dei pesi (Cap. XCVII). D’altra
parte non ci troviamo certe pene, che abbondano in altre leggi municipali
della stessa epoca, le quali abbrividiscono il cuore pella loro atrocità,
come il cavar gli occhi, il tagliar le mani, e altrettanti supplizj.
I statuti estensi li possiamo in tale riguardo tenere per assai miti;
e se le leggi stanno come il riflesso dei costumi della loro epoca,
dobbiamo inferirne che grandi delitti almeno con frequenza non si commet-tessero
in queste contrade.
Altri statuti riguardano la polizia urbana, e tali sono che non si erigano
baracche o altro edifizio nella piazza e nei pubblici aperti (Cap. CV)
- che alcuno non vi scavi terra nelle piazze e contrade (Cap. CVI) -
che sia presto esportato il letame dalle vie (cap. CVII) - che non si
rivoltino le spazzature dalle finestre sulle piazze e sulle vie (Cap.
CIX) - che non si gettino le immondezze nel fiume e nei pozzi, acciò
dal sedimento di quelle non ne vengano putride esalazioni (Cap. CXI-CXII)
- che i condotti delle acque debbano tenersi aperti, liberi e bene mondati
(cap. LXXIV) - che gli alberi debbano essere piantati alla distanza
di tre piedi dalle strade e dal campo del vicino (cap. LXXII), e finalmente
che alcuna femmina non abbia a filare ove si spacciano commestibili
(cap. CXVI).
Abbiamo anche delle disposizioni, che riguardano la sanità, e
ciò in riguardo ai beccai (Cap. CXXVII) - ai pescatori (Cap.
CXXVII) - ai mugnai (Cap. CXXIX) - ai fornai sulla salubre qualità
delle cose da essi esposte alla vendita (Cap. CXXXV).
Finalmente non tralasceremo di dare un cenno su quelle norme statutarie,
che danno come indizio dei costumi allora correnti, ciocché non
deve preterirsi dalla storia. Sono proibite le armi, salva licenza (cap.
CXVIII); i giuochi d’azzardo sono vietati tanto in luogo pubblico
che in privato, e per tale giuoco si nomina la Maina (Cap. CXIX) - Le
vettovaglie non potranno vendersi prima di terza esclusi assolutamente
i rivenditori; misura profittevole specialmente alla classe povera dei
consumatori (Cap. CII) - Entro le fosse di Este è interdetto
piantar postriboli né di giorno né di notte (cap. CXIV)
- Vietate le serenate sotto le finestre dei vedovi che si rimaritano,
nel primo giorno di nozze (Cap. CXXI) - Le donne per debiti non potranno
imprigionarsi (id.) - Abolito il lavoro ne’ giorni festivi (Cap.
XCV), ed imposto ai bovai di camminare a piedi quando guidano i loro
carri per le contrade della città (Cap. CXXII) - Stabilita la
mercede ai maestri muratori, diversa secondo le stagioni (Cap. CXXXVIII)
- Doversi pagare una pena in denaro per ogni bestia che entrasse in
luogo consacrato (Cap. LXIV).
A benefizio esclusivo del Comune è severamente proibito il distrarre
o donare in alcuna guisa le cose alla Comunità spettanti (Cap.
LXXXVIII), e il Capo cento e quarantadue condanna al doppio dell’ordinaria
multa i danneggiatori ai beni comunali.
Processo statutario. Semplice
e breve era il metodo di procedere alla conoscenza del diritto e del
fatto, e ne abbiamo le norme sul fine del nostro codice statutario .
Ne daremo qui un breve cenno.
Bisogna dapprima conoscere il capitolo 91 che riguarda le denuncie,
che fa veramente onore al suo creatore; << Stabiliamo ed ordiniamo
che se alcuno volesse accusare o <<denunziare qualche persona
al Podestà o al suo Vicario di qualche delitto, <<professandosi
per uomo di buona fama ed opinione, e su tale accusa debbiasi stare
al <<giuramento del denunciante; priaché venga quella accolta,
sia tenuto il Podestà o <<Vicario fare ricerca da altre
persone leali e fededegne sulla fama dell’accusatore o <<denunziatore;
e se ne fosse riconosciuta la buona fama, sia ascoltata l’accusa
e stiasi al <<suo giuramento senz’altra prova. Se poi non
del tutto bene suonasse l’opinione di lui, <<sia respinta
l’accusa, la quale anzi rimanga di diritto annullata >>.
Questo era il mezzo universale ammesso dagli antichi nostri statuti
per arrivare alla conoscenza della verità. Gli altri sussidii
si riputavano sovente inutili e dannosi stancheggi.
Le querele erano generalmente portate innanzi al Podestà o suo
Vicario che citava le parti a mezzo de’ pubblici banditori. La
parte che non compariva si dichiarava contumace. Contro i fuggitivi
erano ammessi i sequestri e le interdizioni. Le disposizioni doveano
giurarsi. Per le persone di buona fama, il solo loro giuramento bastava
alla prova.
Mediante i banditori si faceano i pegni e le vendite al pubblico incanto
delle cose immobili (Cap. 13 e 19); la stima si faceva dai Massari.
Non potendosi subastare il fondo, si dava in pagamento al creditore.
D’anni 25 poteasi rappresentar altrui qual procuratore (Cap. 3).
Il processo criminale si faceva per accusa e inquisizione. Chiamatasi
l’incolpato a mezzo del banditore per scusarsi; se latitante o
fuggitivo, veniva in pubblica piazza proclamato. Non comparendo, si
teneva per reo e si condannava; presentandosi, sia che confessasse o
denegasse l’appostogli reato, dovea prestar cauzione, altrimenti
non si rilasciava libero. Data la cauzione, egli potea fare la sua difesa,
e nel frattempo s’udivano i testimoni. Indi si procedeva all’assoluzione
o alla condanna. Durante il regime padovano, ossia de’ Carraresi,
alcuni determinati delitti doveano denunciarsi al Podestà di
Padova, dal quale venivano anche denunciati.
Omettendo alcune peculiari norme, che non è qui il luogo di minuziosamente
descri-vere, queste erano le principali disposizioni regolatrici degli
affari civili e criminali, e che importava qui di conoscere.
Del resto, avendo già noi veduto, siccome le nostre leggi non
furono a corpo ridotte che nel 1318, in cui il nostro Comune stava in
dipendenza a quello di Padova, giova qui per ultimo di osservare che
lo statuto padovano al Capitolo 39 dichiara esser lecito al Comune atestino
di fare nuovi e proprii statuti per comune vantaggio ogni qualvolta
il credesse, in maniera però che non avessero mai a derogare
agli Statuti precedenti o futuri della Comunità di Padova. Naturale
legge del vincitore al vinto.
Non sarà ozioso l’aggiungere che durante il governo dei
Carraresi, v’avea in Padova un giudice del maleficio esterno,
il quale vegliava all’adempimento delle leggi criminali nel territorio
padovano, e che quanto alle pubbliche imposizioni il Podestà
o Vicario allibrava in ciascun anno gli estimi nel mese di Settembre,
e i pesi distribuinvasi per fuochi ossia per case. - I soldati poi spartivansi
durate quel governo per origine di patria o per qualità dell’arma
cui sottostavano. Ogni spargimento avea il suo capitano o connestabile.
Queste sono le memorie, che di quei secoli oscuri ho potuto raggranellare
con indicibile fatica; ma pure quantunque incomplete, assai gioveranno,
a mio avviso, a conoscere più addentro la storia di questa antica
mia patria, ora specialmente che, per utile innovazione degli studii
storici, non si usa guardare tanto agli avvenimenti quanto alla vita,
alle leggi, alle costumanze delle città e dei popoli che ci premessero
nell’arringo delle umane vicissitudini.
Ho così dato termine alla terza epoca della storia estense.